In principio fu il verbo

In aula si parlava di rappresentazione della marca e dell’impatto che l’immagine ha per il consumatore.
Un mio studente osservò che in alcuni prodotti è preponderante il valore del contenuto:
«Una bottiglia di vino, ad esempio, se è buona la ricompro ma se è cattiva può avere anche una bella etichetta, ma non la comprerò più!».
«Può darsi», risposi io «ma a parte il fatto che la prima volta l’hai comprata—molto probabilmente—anche perché attirato dall’etichetta, è anche vero che a parità di gusto la bottiglia più bella è anche la più buona» (per approfondire il discorso si legga Neuromarketing, di Martin Lindstrom).

Il modo in cui presentiamo un fatto, un oggetto, o un argomento, non è la forma del contenuto, ma fa parte del contenuto stesso e questo è tanto più vero nella comunicazione orale. Una storia, un fatto, un discorso ben raccontati sono più credibili, e la verità non sta nel contenuto ma nelle parole e nelle argomentazioni di chi parla.

Comunicare correttamente attraverso un discorso è una cosa che viene spesso data per scontata, non viene insegnata a scuola se non in qualche manuale di management, ma se abbiamo bisogno di raccontare una verità è opportuno che capiamo come farlo nel migliore dei modi: il rischio potrebbe essere quello di riuscire a dire una verità un po’ meno vera.

Le tre fasi del discorso

Dunque, quali fattori tenere in considerazione quando si deve pronunciare un discorso in pubblico?

Innanzitutto possiamo scomporre il discorso nelle sue tre fasi principali: la prima fase è quella in cui occorre attirare l’attenzione, interessare immediatamente i nostri interlocutori per fare in modo che si venga ascoltati sin dall’inizio. Se si comincia male è difficile riuscire a recuperare. Un classico errore è quello di esordire con l’espressione “Niente, volevo dire…” oppure scusarsi per non avere avuto tempo di preparare il discorso (sai cosa gli frega a quello che ascolta!).

Immediatamente dopo aver guadagnato l’attenzione del pubblico si entra nella seconda fase, quella di illustrazione dell’argomento, che è poi il corpo del nostro discorso.

Infine la conclusione, la parte verso la quale tutto il discorso deve idealmente convergere, la chiave di lettura. In ciascuna di queste tre fasi è opportuno tenere a mente alcuni semplici dinamiche.

Legittimazione e semplicità

Per prima cosa l’oratore deve sentirsi in diritto di parlare di quell’argomento, e chi lo ascolta deve legittimarlo, poiché il rischio è quello di non essere percepito come credibile.

Se io volessi scrivere un articolo che parla di Zeman e della marcatura a uomo, non sarei convincente perché non avrei la legittimazione necessaria: non sono un esperto di calcio, non ho mai scritto nulla sul tema né ho avuto esperienze di vita che possano legittimarmi nel trattare l’argomento.

Un’osservazione che credo sia bene tenere a mente è che troppo spesso i discorsi si complicano perché si tende a parlare di massimi sistemi, mentre basterebbe attingere dal proprio vissuto per rendere più chiare le proprie parole: succede spesso ai miei studenti, che per giustificare le scelte progettuali rendono fumose le loro spiegazioni parlando di valori assoluti, di Bellezza, di Equilibrio, di Perfezione… mentre basterebbe utilizzare parole semplici ed esempi tratti dalla loro esperienza quotidiana per risultare più credibili e legittimare quelle scelte.

Piegare le parole

Scrivere un discorso parola per parola è inutile, la forma letteraria è rigida, inflessibile e non si presta al sistema di regole espressive della comunicazione orale.

Come scrisse Mark Twain “in un discorso le parole devono essere piegate, frastagliate, trasformate in un linguaggio più familiare, tradotte nella forma comune del parlare spontaneo; altrimenti annoieranno a morte… invece di interessare”.

La scrittura può aiutare a fissare i punti salienti, la scaletta, l’ossatura del discorso, ma non potrà esserne la copia. Certo, c’è chi invece di parlare a braccio legge il suo intervento, ma di quella categoria di oratori non voglio nemmeno dire cosa penso!

Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi

o dell’evocare immagini

In ogni caso, se è vero che la comunicazione si basa sul principio di semplificazione, usare parole semplici non basta per arrivare allo stomaco e al cuore dell’ascoltatore: evocare immagini è uno degli strumenti più potenti per comunicare in modo efficace.

Gesù, certamente uno tra i più grandi comunicatori mai esistiti nella cultura occidentale, utilizzava parole che evocavano immagini per arrivare con forza ai propri interlocutori: “io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.” oppure “È più facile che un cammello passi per una cruna di un ago, piuttosto che un ricco entri nel Regno dei Cieli.”, “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore.”

L’utilizzo costante della metafora o della similitudine produce immagini, esempi e aneddoti per rafforzare un significato, rendendo le parole più chiare, ma soprattutto più emozionanti. L’oratore sa che le fredde idee, private delle calde emozioni, rischiano di trasformarsi in nulla più di un inutile rumore di fondo, che rimarrà nelle menti degli ascoltatori per un tempo brevissimo e svanirà senza lasciare memoria di sé.

Lo storytelling

Lo storytelling è la capacità di raccontare storie attraverso i principi della retorica. È da quando esiste l’uomo che parliamo di valori, idee, opinioni attraverso la struttura del racconto: le favole, le parabole, il carosello, la stessa narrazione giornalistica sfruttano la forza della storia.

Scambiarsi racconti non è solo uno dei modi per rendere comprensibile (visualizzare) le parole, ma è anche la soluzione più efficace per conservare l’attenzione di chi ci ascolta, mantiene vivo l’interesse secondo il principio del “vediamo come va a finire” e oggettivizza, rende credibile quello che si sta dicendo. Un discorso in pubblico che include la narrazione di una storia si arricchisce del vissuto di chi la racconta, rende partecipe il pubblico creando immedesimazione con i personaggi.

Un milione di persone di fronte a me

A proposito di storytelling: la prima volta che fui chiamato a parlare in pubblico avevo sedici anni, il preside mi scelse per raccontare la storia della nostra scuola ad una folta platea. Non so esattamente quanti fossero, ma se dovessi affidarmi soltanto al mio ricordo erano certamente più di un milione! Di fronte a me c’erano persone che attendevano che io dicessi qualcosa, ma dovettero aspettare un po’ prima di sentire balbettare la prima parola.

Feci molti errori: avevo imparato tutto a memoria, avevo costruito un discorso monotono e con poche riflessioni, ma soprattutto caddi nella paura più totale. Respirare profondamente, concentrarsi su un punto fisso della sala, fare training autogeno, immaginare il pubblico seduto nella tavoletta del bagno… sono piccole strategie per esorcizzare la paura, e possono aiutare. Ma sarà l’esperienza il nostro migliore alleato: più si è abituati a parlare in pubblico e più viene facile farlo. Per non andare nel panico, basta sapere bene quello che si deve dire, provare a ripeterlo, e prepararsi una scaletta.
Ah, quasi me ne dimenticavo: per fare un buon discorso in pubblico bisogna prima avere qualcosa da dire!

editorialista
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