La più grande collezione di macchinine

Non ho la patente. E se da una parte trovo sempre gente meravigliata che si chiede e mi chiede (chi con sincera meraviglia, chi con lo stesso senso di superiorità che ha un adolescente nei confronti di un bambino che crede ancora a Babbo Natale) come si possa vivere senza passare ore a innervosirsi dentro a una scatoletta, a strombazzare perché quello in prima fila al semaforo non si muove un centesimo di secondo dopo che è scattato il verde, a incazzarsi perché non c’è parcheggio, per lo specchietto retrovisore da sostituire, per l’ammaccatura del paraurti, il prezzo della benzina, il fango da lavar via in noiose domeniche pomeriggio o in costosi autolavaggi, le gomme termiche da comprare e montare per l’inverno, la terza fila per andar a prendere i bambini a scuola, il centro chiuso al traffico… I meravigliati e i superiori, ad ogni modo, li ho trovati solo in Italia. Non c’è stata trasferta o viaggio all’estero in cui qualcuno si sia sorpreso nel vedere un ultratrentenne che fa vita urbana preferire i mezzi pubblici, una pedalata o una passeggiata per spostarsi.

Non ho la patente, quindi. Ma da bambino avevo una fissa per le automobili. Le conoscevo tutte. Ogni marca, ogni modello. Di qualcuno sapevo pure l’anno, come nei film americani («A tutte le unità, il sospetto viaggia su una Chevrolet del ’56»). Mio nonno, che è morto quando avevo tre anni, veniva a prendermi la domenica mattina sulla sua 128 e mi portava a fare lunghi giri, che poi finivano spesso dai suoi amici a cui mi esibiva come un bimbo prodigio o scimmietta ammaestrata: «Simone, che macchina è quella?». Facile, una Renault 9. «E quella là?». Citroën GS, come quella di babbo.

Quando mia nonna rimase sola iniziai a passare tutti i pomeriggi da lei. D’estate, la mattina, facevamo sempre lo stesso giro per andare a fare la spesa: l’alimentari di Augusta; il gommista; la bottega di zio Carlo, che era un fabbro; la bottega di nonno, che era falegname, dove ora che lui non c’era più ci lavorava solo il suo socio dal nome strano, Belveter, detto Belvè; Baiardi, che vendeva acqua e bibite (ora su quella stessa via c’è una banca, un’agenzia assicurativa, un’agenzia di lavoro interinale e un’agenzia immobiliare). E poi c’era il Disco Rosso, che era un enorme negozio di giocattoli con ben tre vetrine dove ogni santo giorno io appiccicavo il naso per guardare lo scaffale delle macchinine. Volevo solo quelle, il resto non aveva neanche minimamente lo stesso fascino.
Mia nonna di tanto in tanto me ne comprava una. E quando con i miei passavamo da un altro zio, Franco, che aveva un autosalone, lui me ne allungava un’altra. Prima di arrivare alle medie credo di aver avuto decine di modellini.

Oggi non ne compro più. Mia nonna è morta. Zio Franco in pensione. Però quando vedo una vetrina piena di macchinine mi si illuminano gli occhi e mi si scalda il cuore. E il video qua sopra, realizzato da Cool Hunting nel deposito di Billy Karam, un collezionista di Beirut che ha qualcosa come 30.000 modellini, per me è come una via di mezzo tra pornografia, paradiso e album dei ricordi.

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