I migliori album del 2012 non usciti nel 2012, di Giulia Cavaliere

Giulia Cavaliere ha 27 anni ed ha scritto di musica e letteratura per alcune riviste online e cartacee come Rockit, Trantran ed Indie-eye. Attualmente la leggi su Sentireascoltare, Cosebelle Magazine e una press di arte e stream of consciousness che ha base a Cardiff: TANT magazine. Ha studiato letteratura teatrale, cinema e storia dei linguaggi radiotelevisivi e si interessa di musica italiana che fu, di poesia del ‘900, di avanguardie novecentesche, di amore ed altre forze centrifughe.

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Neil Young
Trans, 1982

10. Se ci allontaniamo dai suoi grandi classici direi che questo è il mio Neil preferito, quello affascinato dai Kraftwerk, dall’imminenza della technologic invasion, dal linguaggio della macchina che trova perfetta rappresentazione in un impero di synth e voci effettate. Di quest’album mi piacciono le mescolanze, l’unione naturalissima di pezzi pop classicamente intesi come Little thing called love alla nuova fascinazione elettronica di We R control o Transformer man.
Liquidato da molti critici e fan come “disco dell’arresa agli 80s”, Trans è molto di più perché nasce dalla precisa volontà di fondere due momenti di storia musicale e sociale dando vita a quel terzo istante di passaggio sempre difficile da comprendere e inserire all’interno delle discografie. Un disco importantissimo, uno snodo, un’illuminazione: in copertina vediamo due macchine chiaramente di due epoche diverse incrociarsi in parallelo nello stesso punto della strada, stando vicine e naturalmente non sfiorandosi mai, l’auto del passato si allontana, quella del futuro sembra stia per investirci.[/wpcol_1third] [wpcol_1third id=”” class=”” style=””]

Jonny
Jonny, 2011

9. Uno dei miei migliori amici vive in Galles e mi racconta di questo suo coinquilino musicista che fa dischi da anni e ha avuto vari gruppi, lo chiama Eros e quando me ne racconta io gli dico che proprio no, non lo conosco. Un giorno su skype mi chiarisce che Eros in realtà si scrive Euros, e che stiamo parlando dell’ex frontman dei Gorky’s Zygotic Mynci, la stessa indie-rock band gallese che verso la fine degli anni ’90 mi aveva fatto ballare non poco in cameretta con la bellissima Poodle rockin’. Uno degli ultimi progetti di Euros Child sono i Jonny, fondati insieme a Norman Blake a sua volta frontman, attenzione attenzione, degli scozzesi Teenage fanclub.
Il disco dei Jonny è una piccola perla indiepop lieve che scivola veloce a tutte le ore del giorno e della notte. Tantissimo pop, dosatissimi synth e la giusta scura vena di malinconia folk. Child e Blake sanno il fatto loro quando si tratta di inventare melodie profondamente british, lo dimostrano pezzi come Circling the sun, English lady, Bread e quel singolone romanticone impeccabile che è I want to be around you.
Ho ascoltato questo disco ovunque: nell’iPod, facendo le pulizie in casa, nei frequentissimi viaggi in treno, camminando in almeno tre città… Poi è successo che sono andata in Galles, ma questa è un’altra storia.[/wpcol_1third] [wpcol_1third_end id=”” class=”” style=””]

Francesco De Gregori
De Gregori, 1978

8. Un pomeriggio la radio mi ha riproposto Renoir, e sono rimasta a bocca aperta, era passato tantissimo tempo da quando mi era capitato di ascoltarla e mi sembrava improvvisamente la risposta alla “dolce venere di rimmel” diversi anni dopo… L’educazione al cantautorato è come quella sentimentale: infinita, ricca di fasi e ritorni. Questo disco stava sotto pile di riascolti di Alice non lo sa, del disco del ’74, di Buffalo Bill, Rimmel e Titanic. Ci trovate dentro Renoir, Il ’56, La campana e pure Generale che poverina ormai ci hanno abituato a bistrattare. E’ un album incredibile, nella mia mente inspiegabilmente profondamente primaverile.[/wpcol_1third_end] [wpcol_1third id=”” class=”” style=””]

Fleetwood Mac
Tusk, 1979

7. Non mi è del tutto chiaro il motivo per cui amo tanto questo disco e la cosa non mi dispiace affatto. Forse la ragione sta nella sua profonda decadenza, eterogeneità, in quel suo afflato punk, e insieme pop, lievissimo. Tusk è un disco di eterna malinconia, l’opinione di un clown, un gioco di alternanze sorridenti che finiscono per tramutarsi sempre in qualcosa di opaco, disperato, che mi ricorda istintivamente “Il nuotatore” di Cheever e ancora di più il film che ne è stato tratto, che è quasi un’allucinazione lunga due stagioni.
L’immagine che descrive meglio quest’album è forse quella di un uomo rimasto solo dopo soldi e successo e che si ritrova a fare i conti con un’esistenza ai bordi di una piscina senz’acqua ma piena di foglie secche e sporcizia. Un’immagine, insomma, da viale del tramonto.
Una delle cose più incredibili che mi sono capitate in questo 2012 è stata trovarmi per uno strano gioco di eventi, a trascorre alcuni giorni in un enorme palazzo nascosto nell’entroterra ligure; questo palazzo appartiene a un importante matematico italiano, è isolato su una montagna, ha un terrazzo enorme con una vista vertiginosa, vetrate dipinte di tutti i colori ed è pieno di stanze che raccolgono i vuoti e i pieni più disparati. Mi aggiravo sul nascere dell’estate per questa casa piena di librerie enormi, originali chaise longue di Le Corbusier, libri di letteratura in ogni lingua e volumi sulla cabala, sugli insetti, sui matematici antichi, scoprivo nel seminterrato un busto di Lenin riposare su un vecchio tavolo in legno vestito ad altare. Tutto questo accadeva con Tusk in repeat, in particolare nei suoi momenti più nervosi, quelli gonfi d’isteria alla David Byrne: What makes you think you’re the one, Not that funny, I know I’m not wrong.[/wpcol_1third] [wpcol_1third id=”” class=”” style=””]

John Coltrane
Lush Life, 1961

6. Colpo di fulmine istantaneo con questo capolavoro di Coltrane. Non saprei, a dire il vero, spiegarvi i come e i perché del fatto che, semplicemente, un giorno ho ripreso in mano questo disco lì sepolto da un po’ e sono impazzita. Album realizzato quasi come una moderna riempitiva operazione commerciale, mentre Coltrane raggiungeva l’apice del successo e la casa discografica, la Prestige, non poteva lasciarsi sfuggire neanche uno dei suoi brillanti respiri. Ho appreso che i cinque brani dell’album sono tutti classici rieseguiti, ad esclusione di Trane’s slo blues scritta da John nella piena esplosione del suo “sheets of sound”, lo stream of consciousness del jazz. La mia preferita è I love you, che attacca tribale e si muove raffinata, a balzi, dolcissimi saltelli. Perfetto dall’1 di notte in poi e per qualsiasi altro momento di assoluta dimenticanza del tutto che la giornata sia in grado di concedervi.[/wpcol_1third] [wpcol_1third_end id=”” class=”” style=””]

Roy Orbison
The essential Roy Orbison, 2006

5. Se siete di quelli a cui l’idea di un “Best of” in una classifica di fine anno fa storcere il naso probabilmente non siete neppure arrivati a leggere fino a qua perché, cari miei, stiamo parlando di Roy Orbison, il re assoluto, quello che, per quanto mi riguarda, si mangia Elvis in una sola lacrima.
Gonfio, pallido, sfigato, occhiali fumè, per nulla sexy (solo a vedersi, perché uno che scrive cose così è sexy per antonomasia) e per nulla appariscente, a Roy Orbison dobbiamo la miglior rappresentazione dell’amore in musica che sia mai stata realizzata. Vita difficile la sua, fatta di ascesa, amore e poi drammi famigliari, perdite e declino fino a quando David Lynch, che di certo beh… è David Lynch, infila in uno dei suoi filmoni un suo capolavoro ricordando al mondo che siamo davanti a un numero uno. Impossibile per tutte le anime Romantiche non perdere la testa per lui, per le sue canzoni e per la sua voce profonda e tagliente come temporali di pioggia battente, o come le guglie di una vecchia cattedrale. Il vecchio Roy ha saputo raccontare con infallibile e millimetrica precisione le sfumature dei deliri del cuore, la centrifuga dell’estasi seguita dall’abbandono. C’è il doo wop, tutto rossetti e calze da sfilare e poi c’è lui, tutto passione e cuore spezzato. Leggetevi quello che ha detto a tal proposito Bruce Springsteen nel suo discorso ad Austin (interamente riportato in La nota giusta, ISBN, 2012) e forse saprà spiegarvi meglio della sottoscritta perché Roy Orbison sarebbe bene tenerlo sempre pronto lì vicino al giradischi, o dove vi pare, per fare l’amore o per ballare e poi, eventualmente, piangerci su.[/wpcol_1third_end] [wpcol_1half id=”” class=”” style=””]

Sagittarius
Present Tense, 1968

4. Ho trascorso la quasi totalità del mese di agosto in città, è una cosa che non mi dispiace fare, anzi, apprezzo molto l’atmosfera rarefatta che si crea quando la mia casa e le vie della città si svuotano e gli orari della giornata sono imposti più dal clima che dalla volontà. E’ qualcosa di molto selvaggio, ozioso, antico. In queste giornate estive scandite da docce, cene solitarie o in compagnia sul terrazzo, vecchi film e l’Anthology dei Beatles in repeat nel televisore, ho deciso di farmi accompagnare da molto sunshine pop, quella musica del sole, un po’ lisergica e dolce, della fine degli anni ’60. Ho perso la testa per questo Present tense, primo album dei Sagittarius, band creata quasi a tavolino da Gary Usher, musicista e produttore molto in auge in quegli anni (collaborazioni con Byrds e Beach boys, per intenderci). Il disco è corale, aperto, cantato o parlato, mai cupo ma a tratti quasi psichedelico, tutto intriso di organo e violino. La copertina dell’album ricorda qualcosa che deve ancora succedere nella storia della grafica musicale, è già quasi prog. Quasi tutti i pezzi sono stati scritti da Curt Boettcher, altro cantautore e musicista statunitense che produsse anche i The association, tra i più grandi “Sunshine popper” di sempre. L’album ha un suono pulitissimo e, come tutti i lavori usciti dopo Pet sounds, gli è profondamente debitore. Il paragone con il capolavoro dei Beach boys non sussiste ma in Present tense ci sono pezzi che corteggiano spietatamente e con ottimi risultati quel sound: My world fell down e Hotel indiscreet su tutti. Riascoltato ora nel gelo resta un gran disco ma il mio consiglio rimane tutto estivo. Vestiti pochi, quel senso di stordimento da canicola e Love’s fatal way sarà perfetta.[/wpcol_1half] [wpcol_1half_end id=”” class=”” style=””]

Lucio Dalla
Dalla, 1980

3. I suoi primi dieci album, diciamo fino a quello del 1983, sono imprescindibili per chi è interessato alla musica d’autore italiana, sono lavori di un’eterogeneità rarissima in termini di composizione musicale e di scrittura. I testi di Roberto Roversi, anche lui scomparso proprio in questo 2012, quelli di un album come Anidride solforosa, giusto per citarne uno, sono letteratura, semplicemente: niente immediatezza, niente pop, niente che si possa liquidare in un semplice sentire distratto. Di certo i testi di Dalla dei dischi successivi non sono da meno.
Il giorno in cui Lucio Dalla è morto era il 1 marzo, appresa la notizia da alcuni sms che in contemporanea raggiungevano lo schermo del mio telefonino, nella mia testa, senza filtro, si sono fatti avanti questi versi, come in un flash che dimentica il reale: “Ho lasciato i pantaloni in un cortile / ho perso anche una mano in un vicolo era un pomeriggio d’aprile”, sono parole di E non andar più via, un pezzo contenuto in Com’è profondo il mare, album che non esito a definire un caposaldo totale della musica d’autore, non solo uno dei tre fondamentali del bolognese.
Il disco “Dalla”, del 1980, è stato quello che quest’anno, forse in modo persino più dirompente prima della morte del suo autore, ho consumato. E’ il disco di Balla balla ballerino, quello di Futura, ma è soprattutto un disco disperato, pieno di incredibili canzoni d’amore che sono esemplari perfetti di cos’era la scrittura di Dalla, tra queste canzoni la regina è di certo quella centrale Cara che vi manderà il cuore su Saturno a ballare sugli anelli. E’ il disco di Il parco della luna, pezzo che apre davvero l’album dopo un incipit che è quasi proemio, canto alla musa. Le canzoni di Dalla insegnano a giocare, a farlo comunque e sempre, anche con la perdita, e io credo che la commozione fortissima che ho avvertito presente in molti durante i giorni successivi alla sua scomparsa fosse dovuta anche a quest’impalpabile e sfuggente sua capacità di integrare nella bellezza di tutte le cose anche il senso della fine, mostrando con un’ironia sottilissima e centrale nella sua poetica, come tutto questo accanimento per impedirla, nei sentimenti, come in tutto il resto, sia infine solo ridicolo, sciocco e, in primis, vano.[/wpcol_1half_end] [wpcol_1half id=”” class=”” style=””]

Serge Gainsbourg
Percussions, 1964

2. “L’amour sans philosopher c’est comme le café, très vite passé mais que veux-tu que j’y fasse”. Questi versi di Couleur cafè sono la ragione per cui, dopo anni di ascolto frequentissimo di Gainsbourg, letture di biografie anche pessime e piene di refusi, pellegrinaggi al 5 bis di rue de Verneuil e spese pazze per i suoi dischi in vinile su cui girano violenti gli spasimi e gli urletti di Melody Nelson, ho ripreso tra le mani questo folle gioiello del ’64. In un caldo pomeriggio di giugno, diretta verso il fiume, mi è arrivata in modo confuso questa frase all’orecchio sinistro e ho pensato che, semplicemente, fosse la perfetta sintesi di quella corrente immaginaria di pensiero amoroso a cui aderisco e che mi piace chiamare realismo romantico: un ideale manifesto, insomma. Dei tanti Gainsbourg questo post coloniale è il più selvaggio e caldo, con tutta la samba, i suoni africani, i pattern sonori eterni, la malizia, l’ambiguità morale a cui dare il peso di una piuma e, in primis, il genio di chi come lui, se non inventa, innova. Alcuni di questi brani – non vi dirò quali per non svelarvi troppo – arrivano diretti da quel capolavoro del 1959 che è Drums of passion del percussionista nigeriano Babatunde Olatunji che tra le altre enormità ha il merito di aver traghettato la musica tradizionale africana negli USA. Gainsbourg rielabora questi pezzi e vi aggiunge francesismi e coralità per poi, dunque, introdurre a sua volta le sonorità nigeriane in Francia.
Il risultato è una magia: erotismo all’ennesima potenza che viene dalla commistione esplosiva della voce di Gainsbarre con l’intenso e perpetuo suono della terra e delle mani che premono e sfiorano costanti sulle percussioni. E’ tutto ventre che scalpita, questo disco, pelle che suda, piedi scalzi tarantolanti sulla terra bollente. Io, dal canto mio, ricordo lo straniamento di Les Sambassadeur che parte in medias res mentre cammino in una Milano ancora accaldatissima d’inizio settembre, passo per via Nino Bixio, due signore portano frutta nei sacchetti, un uomo fuma dall’altra parte della strada, in lontananza nella canzone c’è una sparatoria e dopo soli due minuti siamo finiti tutti a New York.[/wpcol_1half] [wpcol_1half_end id=”” class=”” style=””]

Donovan
A gift from a flower to a garden, 1967

1. Semplicemente un capolavoro che quest’anno ho consumato insieme a un altro album di Donovan: Barabajagal. A gift from a flower to a garden è uno dei primi album doppi della storia del rock, lisergicissimo nei suoni. Wear your love like heaven, il primo dei due dischi, vanta una scrittura elegantemente ed equamente sorretta da chitarre lievi e un organo che è fiore all’occhiello assoluto di questo primo capitolo. Il modo in cui Donovan canta si potrebbe definire filastrocchesco, le parole vengono pronunciate come se l’autore/attore altri non fosse che un personaggio di Alice in wonderland. Il secondo dei due dischi è per bambini, come tradisce il suo titolo: For little ones: siamo essenzialmente di fronte a canzoni acustiche dominate da chitarre, flauti e cinguettii di uccellini: ninne nanne e ottime canzoni da sedia a dondolo… naturalmente anche e soprattutto per i grandi.
Tutto l’album si fregia di una scrittura eccellente, ricca di influssi americani ma profondamente inglese nella costruzione di melodie classicamente bizzarre arrangiate in modo baroccheggiante nel primo album e in maniera più essenziale nel secondo. AGFAFTAG è una perla rara, una massima punta della storia del cantautorato mondiale e lo dimostra il fatto che, dei 22 brani di cui l’album consta, davvero nessuno finisca per risultare superfluo.[/wpcol_1half_end]

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