Poetica del cazzotto

Una palestra. Non di quelle che traboccano di esemplari della classe media che provano a buttar giù la pancetta o a sembrare copertoni solcati da vene gonfie di acqua di cottura, nel frattempo guardando chiappe o pacchi ballonzolare dentro a pochi euro di tessuto elasticizzato e firmato e made in China, gli auricolari che vibrano al tempo delle più svariate colonne sonore della solitudine che distraggono dal rumore bianco dei fiumi di sudore dove affogare frammenti di quotidiana frustrazione che però non vogliono saperne di venire via, di staccarsi come croste dalle nuche piegate, dalle spalle ingobbite, dai culi insaccati, dai nervi che sembrano saltar via dalle braccia bovine dei più convinti, gli sguardi spiritati, parole chiave degne di un biscotto della fortuna che scivolano giù a rivoli dalle tempie – consapevolezza, armonia, relax, tonicità, bruciare, ancora uno, ancora uno, ancora uno.
Sono diciassette anni che non entro in un posto del genere e mi accontento di fare il flaneur per le strade e mangiare tonnellate di verdure (seppure, dopo i trenta, pure una città intera da attraversare sembra non bastar più a scongiurare la panzetta che dopo serate di carnivoro gozzoviglio minaccia rappresaglie, dandomi del cretino quando mi convinco che basti cantar di diaframma, mentre lavo i piatti o metto a letto mia figlia, per far gli addominali).

E poi c’è la boxe. Il lato poetico della palestra. Quella boxe che più di ogni altra disciplina riesce a strappar via da lingue pure raffinate poco altro che di frasi di circostanza, monumenti (funebri) costruiti con mattoni di confortevole, rassicurante, nostalgica, prevedibile dialettica della virtù.
Quando poi basta starsene zitti a guardare un bel diretto che arriva a bersaglio. Il rumore della carne quando si compatta sotto a una pressione di più di 200kg e sembra un sacco che esplode attutito dalla capacità di chi riceve il colpo di incassare. Le spalle che salgono e scendono, a ritmo con il respiro. Gli stivaletti che strisciano sul tappeto. Il silenzio di un colpo andato a vuoto.

Se leggi un libro come Anima e corpo dell’antropologo francese Loïc Wacquant ti rendi conto di come l’unico modo per raccontare la boxe sia di buttare nel cestino decenni di epiche e solenni cronache sportive ed entrare in una palestra per raccogliere storie. Con lo spirito di un ricercatore o un documentarista. Pure Kubrick, per la sua opera prima (ed unica dedicata alla boxe) del’51 – Day of the fight, che puoi vedere per intero, seppur in lingua originale, qua sotto – utilizzò il linguaggio documentaristico.

E pure Port Magazine, recente quanto iper-celebrato magazine maschile, ha deciso di affrontare la boxe entrando in una palestra e lasciando parlare l’obiettivo della videocamera e le voci di chi ci sta davanti. Ne è uscito fuori un bel cortometraggio. Appena un pugno di minuti. Realizzato nella storica Fitzroy Lodge di South London. Palestra dove da cento anni si va per dare e prendere cazzotti. E diventare uomini.

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