Lo scorso 10 novembre ha inaugurato presso il museo MAXXI di Roma la mostra Riccardo Dalisi. Radicalmente, curata dallo storico dell’architettura e del design Gabriele Neri e dedicata al grande architetto, designer e artista (ma anche poeta, per l’approccio al lavoro, alla vita, agli oggetti e alla progettazione) scomparso poco più di un anno fa.
La sua è stata una lunga carriera, che l’ha portato a spaziare tra le discipline, entrando nei libri di storia del design ed esponendo nei musei d’arte contemporanea, collaborando con alcune tra le più grandi aziende (Alessi, Zanotta, Bisazza, Oluce, Rosenthal) e allo stesso tempo portando avanti progetti tra i più radicali nell’ambito dell’architettura, del design e della didattica, tra cui l’ideazione del cosiddetto “design ultrapoverissimo”.
Quello di Dalisi è stato un percorso umano e lavorativo impossibile da riassumere in poche righe, ma i due premi Compasso d’Oro vinti sono un buon punto di partenza per comprendere l’uomo e il progettista: il primo, del 1981, l’ha ottenuto per la sua affascinante ricerca sulla caffettiera napoletana; il secondo, nel 2014, per il suo grande impegno nel sociale, a partire dalle tante iniziative con cui, nel corso degli anni, coinvolse i dei quartieri popolari di Napoli, sua città d’adozione ed elezione.
Proprio per sottolineare la vastità della produzione e il pensiero controcorrente di Dalisi, Novembre Studio — cui è stato commissionato l’allestimento della mostra — ha deciso di puntare sull’uso di sagome che rappresentassero alcune delle opere disegnate, costruite o scolpite dal designer nei suoi molti decenni di attività, presentandole però rovesciate, per dare l’idea di un “sottosopra”, di un ribaltamento che evocasse la visione alternativa di Dalisi.
Quelle stesse sagome sono poi diventate il punto di partenza per la progettazione della comunicazione adv della mostra (cioè tutto l’apparato grafico utilizzato per pubblicizzare l’evento: manifesti, banner, video, sia online che non), affidata a Push Studio, agenzia di base a Noci, in provincia di Bari, che, per l’occasione, ha svolto un grande lavoro di ricerca.
Convito dell’importanza di raccontare il dietro le quinte di progetti che raramente arrivano a essere scoperti dal grande pubblico, qualche giorno fa ho chiamato al telefono il direttore creativo di Push Studio, Giuseppe Laselva, e gli ho chiesto di raccontarmi com’è andata.
Ciao Giuseppe. Partiamo dall’inizio. Come avete ottenuto il lavoro di progettazione per la comunicazione adv della mostra?
Il museo MAXXI ha contattato alcune agenzie a livello nazionale, tra cui noi, chiedendo di presentare un progetto che partisse proprio dall’allestimento curato da Novembre Studio, allestimento che all’epoca era ancora in forma embrionale (mentre l’identità visiva dell’esposizione è a cura di Cinzia D’Emidio).
Abbiamo deciso di utilizzare le stesse sagome ribaltate, puntando su una palette cromatica frutto della ricerca dei colori più ricorrenti nello studio di Dalisi, e andando poi a costruire un lettering in cui ogni lettera si rifà a una sua opera, con l’obiettivo di catapultarti nello spazio mentale del designer, nel suo laboratorio immaginario, pieno di forme, di idee, di concetti.
In questo lavoro abbiamo tracciato un ideale filo con un altro progetto museale sul quale abbiamo lavorato qualche anno fa: in quell’occasione si trattava di un lavoro per la Biennale di Venezia, dedicato a Pino Pascali, che non a caso fu un altro esponente dell’arte povera, che è una delle correnti dell’arte contemporanea che amo di più.
Quando ci siamo sentiti, mi hai accennato di essere molto legato alla figura di Dalisi, e all’arte povera in generale.
Sì, Pascali (che tra l’altro era di Polignano a Mare, come me), Kounellis, Merz, Dalisi…
Oltretutto Dalisi usava l’arte come forma di riscatto sociale. Ha operato per molta parte della sua carriera nei quartieri poveri di Napoli, soprattutto coi bambini, organizzando laboratori di autocostruzione e portando l’arte a chi aveva difficoltà a fruirne. A differenza di molti artisti e designer, Dalisi non si è mai chiuso nel proverbiale castello d’avorio e non hai perso il contatto con la realtà.
Lavorando alla comunicazione della mostra, ho cercato di mettere dentro anche questo, di evocare in toto la sua “filosofia”, la sua ecletticità, la sua umiltà, il suo incessante desiderio di rendersi utile, la sua dinamicità — pensa che è morto quando ormai stava per compiere novantuno anni, lavorando fino alla fine, spaziando dal design per i marchi di più alto livello all’attenzione per le fasce più deboli della popolazione.
Parlami della ricerca fatta. Soprattutto per quanto riguarda l’alfabeto, che trovo straordinario (sarebbe un ottimo punto di partenza per un’intera famiglia di caratteri tipografici).
Il font Dalisi! Non sarebbe male [ride, ndr].
Avevamo poco tempo: c’erano scadenze molto strette, dunque ci siamo divisi i compiti. Nello studio siamo quasi trenta ma in questo caso ho lavorato con un team dedicato, formato in primis da Massimo Gentile, mio socio, fondatore e ceo di Push Studio, dal designer Roberto Loliva, da Alessandro Delfine, che si è occupato del motion design, e da Grazia Franchini e Carlotta Gentile, che hanno lavorato ai testi e ai contenuti.
Per l’alfabeto, ad esempio, sono stato io a svolgere prima una ricerca propedeutica sulle opere — tantissime! — prodotte negli anni da Dalisi, selezionando quelle che, per forme e decorazioni di alcuni elementi, si prestavano meglio a essere sintetizzate in lettere.
A quel punto abbiamo fatto diverse prove, per capire quali, tra le opere frutto di quella prima cernita, andavano meglio per le varie lettere che compongono il nome Riccardo Dalisi.
Nel visual, il lettering assume un ruolo centrale e iconico e rappresenta un prezioso strumento per identificare l’universo unico di Dalisi.
— Push Studio, dalla presentazione del progetto
Guardando il lettering, sembra di esplorare il suo loft, un ambiente in cui la luce è scarsa tra gli scaffali affollati di migliaia di oggetti come caffettiere, case, cavalieri, automobili e ingranaggi. Ogni lettera nel visual rappresenta in modo unico uno di questi elementi.
Per esempio, la “D” e la “I” di Dalisi richiamano le forme delle sue sedie realizzate con materiali poveri e il cappello dell’iconico Titocchio. La “I” di Riccardo si ispira alle macchie ocellari presenti sulla Panca Mariposa, mentre la “A” evoca la scultura La casa dentro casa e così via.
Le lettere, nell’insieme del visual, non solo ricreano lo studio di Dalisi, ma restituiscono all’artista la sua stessa essenza. Infatti, rifacendoci al sentimento panico dannunziano, Dalisi sembra fondersi con i suoi cavalieri, lumache, figure antropomorfe e con le loro emozioni, trasformandosi egli stesso in un’opera d’arte. Assimilando le caratteristiche delle sue creazioni, l’artista ritorna a vivere, come le sue opere immortali.
Fammi qualche esempio.
La prima I, quella “bucata”, è la Panca Mariposa, che è anche esposta in mostra. La seconda R ha delle linee che sono di un’altra seduta. La seconda A è ricavata dal premio Compasso di Latta, che lui stesso inventò e promosse. La E finale rimanda alla caffettiera Alessi.
Nella presentazione che abbiamo mandato al MAXXI tutto questo è stato esplicitato: potevamo anche presentarle così com’erano, ma abbiamo voluto testimoniare e dare importanza alla ricerca fatta.
Il nostro è un lavoro di servizio, che fa da corollario alla mostra, e chi va a visitare l’esposizione, ovviamente, non ha idea di tutto quello che c’è dietro alla progettazione grafica. Per chi non è già un addetto ai lavori, passa inevitabilmente in secondo piano.
Per questo ci tenevo che uscisse fuori. Anche perché credo che la comunicazione sia un fattore tutt’altro che secondario, visto che influisce sulla percezione di chi poi andrà a visitare la mostra. E noi siamo molto fieri del lavoro che abbiamo fatto.
Anche sul colore avete fatto una grande ricerca.
Sì, c’è stato uno studio attento anche dal punto di vista cromatico, che si basa fondamentalmente sulla convivenza tra nero e colore. Il nero, come abbiamo scritto nella presentazione, «rappresenta la realtà difficile e trascurata dei quartieri napoletani come Traiano, Sanità, Scampia e il carcere minorile di Nisida», che sono i luoghi in cui Dalisi ha portato avanti una grande opera di riqualificazione e rigenerazione.
I colori sono quelli che lui usava più spesso per i bozzetti. Nel nostro progetto, questi si fanno dominanti e avvolgono il nero, incarnando la capacità dell’arte di andare a sovrapporsi a delle situazioni oscure. Concettualmente è questo che volevamo trasmettere, e lo si vede bene soprattutto nell’animazione. Qui, partendo dalla base nera, arrivano le forme che, accavallandosi le une sulle altre, anche in maniera disarticolata, non omogenea, caotica, riescono a coprire il nero e a rappresentare l’arte e quella possibilità di recupero e di riscatto che essa offre.
Poi c’è un colore neutro, il Light Craft, usato in alternativa al nero. Si ispira a materiali poveri come la carta, la cartapesta, il legno abbandonato — materiali che Dalisi prediligeva.
Tra l’altro voi, come studio, avete dimostrato una grande capacità di lavorare sugli archivi, sulla storia dei territori, sulle simbologie…
Sì, facciamo molta ricerca in quel senso. E quando abbiamo a che fare con grandi personaggi dell’arte e della cultura, come in questo caso, il nostro approccio è quello di “metterci i guanti”. Cerchiamo cioè di non essere troppo invadenti, di non prenderci la scena, e di essere invece il più possibile rispettosi dell’opera e del pensiero dell’artista.
E ci piace molto avere la possibilità di lavorare e confrontarci su personaggi e storie del genere. Ad esempio per il Teatro Pubblico Pugliese, più precisamente per la stagione teatrale di Bari, stiamo realizzando delle piccole animazioni dedicate a Calvino, a Matteotti, prossimamente a Rocco Scotellaro.
Quando al visual si legano contenuti di tipo politico, sociale e culturale, noi siamo doppiamente contenti.
Siamo una bella squadra, piena di giovani formati internamente, come Alessandro Delfine e Roberto Loliva, che ho già citato perché hanno fatto parte del “team Dalisi”: ho visto personalmente la loro crescita, il formarsi e l’arricchirsi del loro bagaglio culturale, ed è una cosa che a me e Massimo dà una grande soddisfazione.
Chiudo tornando a Dalisi. Tu lo conoscevi già, e questo probabilmente ti ha aiutato a “entrare” più facilmente nell’ordine di idee giusto per affrontare il progetto. Ciò che ti chiedo, però, è se, lavorandoci, sei in qualche modo arrivato ad avere un rapporto più profondo con l’opera di Dalisi. Te lo domando soprattutto riguardo ai caratteri che hai creato per il nome. Hai operato doppiamente sul dettaglio: da una parte sei andato a cercarti le forme, i particolari minimi, e li hai trasformati in lettere, in questo modo accedendo a una rapporto più intimo con le opere di partenza; dall’altra, creando il lettering, hai dovuto tener conto di ogni minuzia (in tipografia, come sappiamo, la più piccola quisquilia — che quisquilia non è — può cambiare radicalmente la percezione di un testo). E insomma, non so se sono riuscito a spiegarmi…
Sì, sì, sei riuscito a spiegarti. Hai perfettamente colto nel segno. Seppur svolto con tempistiche tremende, il lavoro mi ha dato modo di scoprire e riscoprire Dalisi molto più “da vicino”.
Riguardo al conoscerlo già, è stato effettivamente così: la passione che mi lega all’arte povera mi ha molto aiutato in questo progetto.
La mostra Riccardo Dalisi. Radicalmente, a cura di Gabriele Neri, rimarrà allestita al MAXXI di Roma, presso la galleria 4, fino al 3 marzo 2024.