Fuoriclasse: intervista a Federico Meda e Serena Mabilia, che hanno raccontato in un libro illustrato le storie di 15 sportivi

Lo ammetto, faccio parte di quella categoria di persone che passa ore a seguire alcuni sport in televisione. Non sono una da calcio, piuttosto da nuoto, tennis e diversi sport invernali e, ovviamente, ho una lista di atleti preferiti per cui faccio il tifo. Certo, mi entusiasmo guardandoli vincere, ma non sono solo quelli i momenti che cerco, i momenti che mi riportano di nuovo davanti ad uno schermo per la competizione successiva. Osservo, per quanto mi è concesso, con curiosità cosa succede quando i giochi devono ancora cominciare o sono appena stati fatti, quando non ci sono gradini del podio da salire, quando i campi o le piste si svuotano e la vita aggiunge altre sfide.

Il libro esposto presso la libreria Corraini 121+, a Milano
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Credo sia questo il motivo per cui è stato bello immergermi in Fuoriclasse. 15 storie di sport per ispirare gli adulti di domani, edito da Raum Italic Edizioni, scritto dal giornalista sportivo Federico Meda e illustrato da Serena Mabilia, con cui avevo già chiacchierato non moltissimo tempo fa. Il libro raccoglie e racconta ai ragazzi 15 storie di sportivi “fuoriclasse”, ovvero di atleti che non hanno raggiunto grandi traguardi solo in uno stadio, su una pista o in un palazzetto, ma anche al di fuori.

C’è chi si dedica ad aiutare i meno fortunati e chi, da meno fortunato, diventa un campione; c’è chi decide di sfidare la segregazione razziale e chi si oppone ad una dittatura; c’è chi sfata tabù e chi presta la sua voce ad altri. Sono racconti che si sono persi nelle pieghe di una Storia in cui questi protagonisti non hanno avuto ruoli di poco conto, sono cassetti che Federico e Serena riaprono perché i più giovani possano esplorarli e scoprire che non esiste un solo modo di essere fuoriclasse.

Federico Meda e Serena Mabilia
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

La prima domanda è per Federico: come è nata l’idea di questo libro qui? 

Federico

Conosco bene gli editori, Barbara e Marco, perché ho vissuto per un periodo a Berlino dove loro hanno base e, dato che ci piacevamo, avevamo da tempo la voglia di realizzare qualcosa insieme. Il primo progetto era quello di un libro su Berlino, ma un’altra casa editrice li ha battuti sul tempo e non è stato con loro che ho creato una guida al muro di Berlino per i 35 anni dalla caduta. Loro, comunque, avevano da tempo l’idea di associare un grande illustratore con una storia di eccellenza, ma non legata allo sport. Si erano immaginati un libro in cui ogni pagina destra venisse accompagnata poi da una tavola illustrata a sinistra e mi avevano mostrato un autore, ma sentivo che non era quello che volevamo.
Sono poi passati anni e quando ci sentivamo tornava sempre fuori l’argomento del fare qualcosa insieme, finché non mi hanno detto esplicitamente che volevano un volume di sport nel loro catalogo. Barbara e Marco avevano apprezzato molto libri come Storie della buonanotte per bambine ribelli e volevano riproporre lo stesso format declinandolo allo sport, ma comunque in un modo diverso. Ho cominciato allora a cercare le storie, che avevamo deciso dovessero essere eccezionali non solo da un punto di vista di prestazione sportiva, e nel frattempo ho chiesto loro un’illustratrice come Serena, ovvero un po’ vecchio stile — da non intenderlo con accezione negativa! — molto figurativa, ricca di pastelli, non di certo con tinte piatte o tratto troppo moderno.
Il primo autore che mi avevano mostrato, qualche anno prima, a me non aveva colpito perché mancava una cosa importante, ovvero il legame tra autore e disegnatore. Grazie a Serena e alla sua capacità di scrivere intorno alle parole, siamo invece riusciti a creare quel legame e anche io ho cominciato poi a scrivere intorno ai suoi disegni. Secondo me, questa capacità di comunicare tra testi e disegni è uno dei punti di forza del libro.

(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Serena, cosa ti ha convinto a dire sì? 

Serena

Conoscevo già, anche io, Barbara e Marco perché avevamo lavorato insieme ad un libro su Alighiero Boetti. Se non ricordo male, un giorno mi hanno chiesto se potevo prestare loro dei disegni che avevo realizzato per conto mio, senza uno scopo preciso, in cui c’erano queste due figure che facevano il ponte: una persona era vestita con abiti sportivi dei giorni nostri, di colore nero; l’altra invece era ispirata alla Jane Fonda delle lezioni di ginnastica, per cui ho una passione, perciò con abiti decisamente fluo.
Posso confermare che Federico ha ragione, ho una certa attrazione per il vecchio stile! Ovviamente ho detto loro che potevano prenderli, ma non so bene se li abbiano poi mostrati a Federico o meno, sicuramente avevo capito che c’era qualcosa in ballo che aveva a che fare con lo sport. Difatti, Barbara e Marco mi hanno scritto, in un secondo momento, per raccontarmi del progetto di Federico e volevano sapere se potesse interessarmi.
Da non sportiva, sono stata comunque subito attratta dalla loro proposta, c’è qualcosa nello sport, soprattutto nelle storie degli sportivi, che mi colpisce moltissimo. Ho accettato volentieri anche per uscire da quella che è la mia comfort zone di temi che già conosco e infatti ho imparato tantissimo.

(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Non posso non chiedervi del vostro rapporto con lo sport. Tu, Federico, sei giornalista sportivo, ma come ti sei innamorato dello sport?

Federico

Merito di mio padre, che era giornalista sportivo. Lo è stato prima alla Gazzetta, poi ha fatto esperienze diverse, seguendo campioni e scrivendo molto di salute, e per 25 anni è stato a capo dell’ufficio stampa del Giro d’Italia. Non a caso sono un grandissimo esperto e appassionato di ciclismo. A dire il vero, non volevo diventare giornalista, non volevo seguire le orme di mio padre. Mi sembrava troppo bravo, anche se poi ho capito che non sarò mai bravo come lui, ma sarò bravo diversamente da lui. 
Da bambino, comunque, guardavo e praticavo tantissimi sport: mia mamma mi ha fatto fare pattinaggio a rotelle e su ghiaccio, l’estate il tennis, il nuoto da bambino piccolissimo, poi judo, tiro con l’arco, lo sci da sempre; con il rugby ho trovato, poi, la mia quadra e continuo a praticarlo. Sono rimasto quel bambino che fa tantissimi sport, e anche mio figlio, Bruno, è uguale a me. La cosa più bella però è che se io ho sentito l’assenza di mio padre che non aveva mai tempo per giocare, con Bruno invece giochiamo spesso o guardiamo lo sport in televisione insieme.

Un tavola del libro
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Che rapporto hai avuto e hai oggi con lo sport, Serena?

Serena

Mi ricordo che alle elementari mia mamma veniva ripresa dalle altre mamme perché non mi faceva fare sport. Lei, allora, provava a chiedermi se ci fosse qualcosa che mi interessava ma io e lo sport proprio non parlavamo la stessa lingua. Alle medie, però, ho cominciato a fare danza e ho fatto danza contemporanea per tantissimi anni. È sicuramente una pratica che potremmo definire “sportiva”, ma toccava anche aspetti di me che mi sono più facili: c’era nella danza un’espressione e un coinvolgimento emotivo che forse negli altri sport non riuscivo a trovare. Piano piano sono migliorata, ero disastrosa durante le ore di educazione fisica ma, non forzandomi troppo, ho cominciato a fare qualche allenamento a corpo libero.
Continuo ad avere un approccio allo sport del tipo che se mi va, lo faccio, altrimenti non importa. Non mi dispiace anche guardarlo alla tv, ma se è stato bello seguire l’atletica leggera alle Olimpiadi, con alcuni sport ammetto di annoiarmi a morte. Mentre lavoravo al libro, ho scoperto moltissime cose: non avevo mai guardato in vita mia un incontro di judo, ma avevo bisogno di materiale per la storia di Rafaela Silva, perciò mi sono sparata tutti gli incontri che potevo e, nonostante dal punto di vista tecnico brancolassi nel buio, non ho potuto non notare una certa poesia nei movimenti.

Una tavola del libro
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Passando al libro, avrei una domanda personale. Come avete scelto a chi dedicarlo? 

Federico

Ho scritto già qualche libro, ma non ne avevo ancora dedicato uno a mio papà. Mi sembrava anche il libro giusto per farlo, per ringraziarlo anche di tutti i consigli che mi dà, per le cose che ho imparato da lui, avendo anche lavorato insieme. L’ho definito un “fuoriclasse” perché il fuoriclasse è quello che ti dà tutto senza chiedere nulla in cambio e mio padre è proprio così, sempre. Gli sono grato anche per i sogni che mi ha regalato tramite la passione che ci accomuna per lo sport, per il lavoro quando ha voluto coinvolgermi nella creazione di un’agenzia di comunicazione, anche se poi ho preso la mia strada. I ruoli tra noi, comunque, si sono già invertiti. Ad un amico, una volta, raccontavo che mi sembrava che mio padre mi lasciasse troppo fare, quando però non mi sentivo ancora pronto, lui allora mi ha regalato una metafora, che mi sembra perfetta: ci sono due persone su un aereo, di cui quello dietro è un copilota che sta imparando; ad un certo punto il copilota chiede a quello davanti quando potrà pilotare da solo e quello di rimando gli risponde che lo sta già facendo da un po’, ma non glielo ha voluto dire perché lo facesse con leggerezza.

Serena

L’ho dedicato a Cate, cioè Caterina, mia cugina. Abbiamo la stessa età. Quando era bambina, voleva tantissimo giocare a calcio, ma non c’erano squadre femminili. Era però così convinta che ha cominciato a giocare in una squadra maschile: erano tutti bambini maschi, tranne lei e un’altra bambina. Ha giocato fino a qualche anno fa, perché nella vita, si sa, le cose cambiano.
Abbiamo un bellissimo rapporto, è come se fosse una mia gemella. Quando faccio un libro, la parte delle dediche è la mia preferita, perché arriva sempre un momento in cui capisco che è per quella persona lì. Se c’è la possibilità di inserire una dedica, lo faccio sempre, mentre se sono libri di altri, è la prima cosa che cerco.

(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Immagino non sia stato facile fare una selezione delle storie da inserire nel libro. 

Federico

Il processo di selezione era già stato definito da un po’. L’idea era quella di avere tre grandi ere cronologiche: i pionieri, i moderni e i contemporanei. I pionieri sono storie avvenute fino alla seconda guerra mondiale, i moderni invece hanno vissuto nella seconda parte del ‘900 e i contemporanei sono ancora in attività, o quasi. Avevamo deciso di cercare un pareggio tra uomini e donne, ma ovviamente con un numero dispari di storie è stato impossibile, volevamo coprire un po’ tutto il globo e ogni storia doveva riguardare una disciplina diversa.
All’inizio ho selezionato le prime 7/8 storie, poi è diventato più complicato perché c’erano questi criteri da seguire. C’erano delle storie bellissime che non ho potuto inserire perché, ad esempio, riguardavano una disciplina già coperta. Ci sarebbe piaciuto mettere dentro un cavallo, o comunque un animale, e ci è dispiaciuto non inserire la danza, ma erano tutte storie non proprio cristalline. Non che quelle inserite nel libro non lo siano: Eugenio Monti è morto suicida dopo uno scandalo per i suoi tentativi di costruire impianti di risalita utilizzando la dinamite, mentre Rafaela Silva è incappata in una squalifica.
C’erano dei personaggi di cui mi ero innamorato, come Kareem Abdul-Jabbar, che è stato uno dei più grandi cestisti della storia, mi affascinava il suo rapporto con la fede musulmana, ma anche il fatto che è stato un eminente storico di storia afroamericana. Alcuni ammetto di essermeli tenuti nella speranza di inserirli in un prossimo libro. Ho sorpreso tanti non inserendo storie di tennis, ma soprattutto di ciclismo. Devo ammettere però che, nel caso del ciclismo, non mi sono imbattuto in storie che raccontassero molto di più rispetto alla prestazione sportiva.

Bozzetti
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)
Bozzetti
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Serena, come è stato invece il tuo lavoro nel dare una forma visiva a queste storie e che legame è nato tra te e loro?

Serena

Federico mi è stato molto d’aiuto nel farlo, perché ad ogni testo — che non era quello che si può ora leggere nel libro ma una versione molto più lunga e ricca di informazioni — mi allegava una lista infinita di link. Guardare spezzoni di partite, interviste o documentari che fossero era importantissimo perché riuscivo così a studiare i gesti, i movimenti, i colori da tradurre poi in un’immagine che, nel frattempo, emergeva nella mia mente. Con la quantità di materiale che avevo, immergermi non è stato affatto difficile.
Sono riuscita a trovare sempre una vicinanza con le storie, forse per la perseveranza, lo stare in una cosa, l’allenarsi, il continuare o sentire una sorta di chiamata, il raggiungere dei risultati con fatica. So di non saperne di sport, ma a livello umano mi sento molto vicina a loro. Anche quando esplicitano certe riflessioni sui loro percorsi, non li sento affatto diversi dal mio: quello che per loro è allenamento, per me è tempo passato in studio a disegnare.

(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

C’è un atleta che inserireste ora e che nel momento in cui avete dato forma al libro non vi aveva ancora colpito?

Federico

Dovrei pensarci un po’, ma in realtà avevamo pensato a inserire, ad esempio, Simon Kjær, il calciatore danese che ha salvato la vita a Eriksen durante gli Europei di calcio. Ma c’era anche Marcus Rashford, il giocatore del Manchester United. Comunque se dovessi scegliere ora, inserirei qualche storia di atleti paralimpici.

Serena

Dopo aver finito il lavoro, mi sono imbattuta in due film stupendi: Eddie the Eagle e The Phantom of the Open. Raccontano la storia di due atleti, rispettivamente lo sciatore Michael Thomas Edwards e il giocatore di golf Maurice Flitcroft, le cui performance sono scarsissime, ma la loro motivazione inesauribile e il loro entusiasmo contagioso. Tanto che entrambi diventano poi due eroi popolari davvero amati dal pubblico.

(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Rafaela Silva, protagonista di una delle storie, ad un certo punto della sua carriera, ovvero dopo le Olimpiadi di Londra del 2012, decide di mollare a causa della delusione dei risultati non ottenuti e degli insulti ricevuti.
Si parla molto poco di mollare nello sport, sarà perché crediamo che non sia un verbo che possa appartenere ad un campione?

Federico

Secondo me, ognuno è campione a modo suo. Non c’è un archetipo del campione, come non c’è un cursus honorum del campione. Certo, ci ricordiamo bene chi ha vinto 19 medaglie di fila nel nuoto, però preferiamo i campioni che hanno delle cadute, che si rialzano o che vincono in maniera diversa. E poi un conto è essere campioni e un conto è la storia che racconti, e proprio a quest’ultima ci appassioniamo, a ciò che ci trasmette. Perciò la caduta e la redenzione, così come l’outsider, sono cose a cui ci sentiamo legati. Per questo motivo, nel libro, non abbiamo voluto mettere in evidenza le vittorie e le medaglie, ma quello che c’è dietro di loro, che ogni tanto è bello, altre volte meno, altre ancora è difficile e altre è triste.

Serena

Parto dal presupposto che ognuno di noi vive esperienze così diverse, che solo chi le sta vivendo può davvero giudicare con consapevolezza le proprie scelte e ascoltare i propri bisogni; da fuori possiamo prenderne atto e essere vicini a chi sente l’esigenza di mollare. Di questo libro, tutte queste diversità, i momenti di debolezza così come i traguardi, sono preziosi in egual modo e tutto ha valore in egual modo, perché fa parte della vita. Non credo nemmeno sia necessario che si debba per forza imparare o che debba avere un senso razionale, ma semplicemente prenderne atto e lasciare che ti trasformi, che ti porti in direzioni che non avevi previsto.
Per me, campioni lo sono tutti, purché siano consapevoli del fatto che non è tanto l’atto finale, ma il percorso ciò che conta.

(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Nel libro comunque non tutte le storie finiscono con un “felici e contenti”, un’anomalia rispetto a quelle che vengono solitamente propinate ai più giovani. Secondo te, Federico, cosa possono insegnare ai ragazzi?

Federico

Le varie sfumature della vita e del destino. Ma credo che questo libro, che immagino verrà letto da persone già in qualche modo consapevoli, debba essere letto anche con i genitori. Lo vedo con mio figlio, a cui tante cose le devo spiegare. È un modo per stimolarli a fare domande.
Un mio carissimo amico, che conosce bene mio figlio e con cui ha un bel legame, diversi anni fa ha avuto un incidente bruttissimo in motorino, facendosi molto male. Mi ha mandato una foto del viso completamente tumefatto, quasi irriconoscibile. A Bruno, mio figlio, ho deciso di mostrarla, perché volevo capire la sua reazione, gestirla anche. Lui però non si è spaventato, perché non immagina quanto il mio amico, Andrea, possa aver sofferto. Sono un po’ della scuola che ai bambini sia meglio raccontare la verità subito, non semplificare le cose e portarli al museo, pensando che quello che prendono, prendono. 
Per alcuni leggere certe cose, potrebbe essere utile per capire che non sono affatto da soli: basta pensare alla storia di Ibrahim Hamadtou, giocatore di ping pong senza braccia, il cui scopo principale è che gli altri, guardandolo giocare, possano pensare che se ce l’ha fatta lui, possono farcela anche loro, qualsiasi sia il loro limite.

Una tavola del libro
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Lo abbiamo già detto diverse volte, ma lo sottolineo: in questo libro si parla prima dell’essere umano e poi della prestazione sportiva. Perché, Federico, credi che si continui a fare esattamente il contrario là fuori? Mi ha colpito in particolare, qualche weekend fa, quando si è parlato moltissimo dell’impresa epica di Sofia Goggia, che ha vinto una gara di Coppa del Mondo con una mano appena operata, e poco di Mattia Casse che, dopo moltissimi anni nel circuito, sale finalmente sul podio la prima volta, al terzo posto.

Federico

Siamo abituati a una marea di media differenti e quando ci appassiona una storia non capiamo perché non è su tutti i giornali. Sono un giornalista e appassionato di rugby e a dicembre lo sport era su tutti i giornali per via della questione della banana marcia, un gesto assolutamente da condannare. In teoria, però, i media siamo noi, ma abbiamo perso il potere sui media: una volta noi pagavamo un giornale e avevamo quello che pagavamo, adesso non paghiamo più noi, ma la pubblicità, ed è un problema. La stessa cosa vale per internet: se arrivassimo ad avere ovunque dei paywall e decidessimo di spendere 2, 10 o 50 euro al mese, i media forse potrebbero tornare ad avere la funzione di raccontare non solo le cose che pensano possano dargli visibilità. Dovrebbero essere i media a formare il pubblico, ma, invece, da moltissimo tempo, è esattamente l’opposto. Siamo finiti in un cortocircuito, in cui i social decisamente non aiutano. Mi confrontavo al riguardo anche con mio padre: se i giornalisti avessero preso seriamente i social fin dagli inizi, avremmo un approccio più giornalistico. 

Una tavola del libro
(courtesy: Federico Meda e Serena Mabilia)

Tra le ultime pagine del libro c’è uno spazio in cui i giovani lettori possono inserire la storia che li ha colpiti di più e anche suggerire nuovi fuoriclasse. Voi quale storia indichereste?

Federico

Io indicherei Werner Seelenbinder.

Serena

Io indicherei la storia di Tonya Harding, per cui ho una predilezione, senza sapere nemmeno bene perché, visto che si tratta di una persona con moltissimi lati oscuri. Anzi, forse proprio per via di essi, per rivendicare il controverso, l’ambiguo o il disdicevole: tutto, ancora una volta, molto umano.

Federico Meda, illustrazioni di Serena Mabilia

Fuoriclasse

15 storie di sport per ispirare gli adulti di domani

Raum Italic Edizioni, 2022
80 pagine

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