Parole di ceramica: Chiara Caselli

Prima della ceramica, ci sono stati gli studi di architettura a Venezia, poi il lavoro da designer ad Amsterdam, dove vive da cinque anni. Chiara Caselli, sassolese di origine, da dietro uno schermo, mi racconta che per due anni ha fatto una doppia vita: di giorno lavorava appunto come designer in uno studio di design d’interni, di sera invece passava il tempo in atelier a far ceramica fino alle dieci. Era un hobby, un’attività per allontanarsi dal computer, ma poi si è trasformata nella molla che le ha dato il coraggio di cambiare molto della sua vita.

Le domande diventano come le ciliegie, una tira l’altra: mi racconta di Swayze, che aprirà a breve le sue porte ad Amsterdam, delle differenze tra il nostro paese e la città che è diventata la sua nuova casa, di spiritualità e di materia da domare. Nonostante l’indigestione vicina, vorrei trattenerla per continuare a riflettere assieme, ma sono convinta che avrò altre occasioni per scrivere di Chiara.

La prima domanda è oramai una tradizione, ti devo chiedere come sei finita con le mani nell’argilla.

Sono designer, anche se a dire il vero di formazione sono architetto dopo gli studi a Venezia. Lavorando nel design, appunto, mi capitava spesso di andare per fiere, esposizioni e ho capito che avevo una certa attrazione per questo materiale, perciò mi sono detta: «perché non provare?». Nel 2020 ho seguito qui ad Amsterdam un corso e mi sono immediatamente appassionata alla ceramica. Credo sia anche un pochino nel mio DNA: vengo da Sassuolo, la patria in Italia delle piastrelle in ceramica. Mi piace pensare che sia stato un po’ anche un ritorno alle mie radici, dalle quali sono allo stesso tempo scappata, visto che vivo fuori dall’Italia da tantissimi anni.

Mi piaceva moltissimo toccare la materia. Come designer ho sempre lavorato con il computer e ho capito che non ho mai dato abbastanza importanza al lavoro con le mani, scoprirlo è stato un’esperienza fantastica e meditativa, nonostante sia anche parecchio frustrante. Non a caso, la prima cosa che ci disse la nostra insegnante il primo giorno era che la più grande lezione che la ceramica poteva darci era il potere del distacco emotivo, che non è affatto male visto che abbiamo un po’ tutti la mania di voler avere sempre tutto sotto controllo. È bello che la materia sia libera di fare, senza il nostro controllo eccessivo.

Leggevo dalla tua bio di Instagram che sei “un terzo” di un progetto di ceramica per creativi, che avete chiamato “Swayze”.

Qui ad Amsterdam è pieno di posti per imparare aperti a tutti, sicuramente più aperti rispetto all’Italia, dove le mie amiche mi raccontano di fare molta più fatica nel trovare corsi o luoghi dove poterne seguire. Io ho cominciato in uno di questi spazi, che può essere definito un po’ come una scuola, ma anche come un collettivo, e dove poi ho cominciato a fare la volontaria sia tenendo corsi, sia nella manutenzione del posto. Tra le moltissime persone appassionate di ceramica che lo frequentavano, ho fatto amicizia soprattutto con le due ragazze — Giedre Kaziunas e Sophie Tu — con cui abbiamo deciso di aprire un luogo nostro, Swayze appunto. Chiaramente ispirato all’attore protagonista di Ghost [ride, ndr].
Si trova nel centro di Amsterdam e siamo quasi pronte per l’apertura, che avverrà questo settembre. Stiamo iniziando a fare qualche corso con amici, ma lo scopo principale sarà quello di creare un luogo che sia d’attrazione per creativi, dove la ceramica viene vissuta soprattutto come un’esperienza che si lega a tanti altri mondi e aspetti, e che può diventare parte integrante della nostra vita quotidiana. Ci piacerebbe, ad esempio, mixarla con l’astrologia e la tarologia, dato che ne sono appassionata e leggo tarocchi.

Prima mi dicevi che hai amiche o amici che qui in Italia si sono avvicinati alla ceramica. Certo, il mondo della ceramica ad Amsterdam lo vivi quotidianamente, ma in base ai racconti che loro condividono con te, dove riscontri le maggiori differenze tra le due realtà? Ce n’è una, secondo te, più in difficoltà dell’altra?

Un po’ come tutto, il problema dell’Italia sta anche nella sua enorme potenzialità: abbiamo una storia e una cultura incredibili, che difficilmente hanno eguali all’estero, così come anche la creatività e la passione che mettiamo nelle cose; eppure abbiamo molta difficoltà nell’uscire dalle dinamiche che ci hanno contraddistinto per moltissimi anni e che sono radicate a tal punto da rendere difficile cambiarle. Ma noi abbiamo bisogno di creare qualcosa di nuovo, magari attingendo proprio a quelle radici.
Ad Amsterdam mi confronto con un ambiente molto più aperto nel recepire qualsiasi cosa di nuovo ci sia. Lo vedo anche con Swayze: il contesto stesso della città o dell’ambiente in cui viviamo ci dà il sostegno, anche psicologico volendo, di dire «Bene, ce la possiamo fare, possiamo trovare chi crede nel nostro progetto!».
Qui c’è una positività diversa verso il futuro. Ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato, che in Italia le persone che conosco hanno considerato un gesto folle. So che sarà un periodo di investimenti e non mancano già i momenti in cui ti abbatti e ti chiedi cosa stai facendo, però poi arrivano le soddisfazioni.

Credo che comunque in Italia le cose stiano migliorando, ho molta fiducia nella nostra generazione, nel far riconoscere il messaggio che non siamo nati per fare una cosa e doverla poi fare per tutta la vita.
E poi, secondo me, c’è un passaggio mentale che dobbiamo ancora fare: spesso la parola “artigianato” viene vista non a livello elevato, come a mio parere dovrebbe essere. C’è ancora l’opinione che siccome stai usando le mani, la pratica non possa essere definita artistica, come quando un pittore fa un quadro. Anche qui però c’è stato un passo in avanti: molte gallerie cominciano ad avere anche opere di ceramisti, l’elemento di design si sta trasformando anche in un elemento d’arte, c’è una grossa ibridazione tra design, artigianato e arte.

Secondo te, la maggior parte delle persone quando pensa alla parola “ceramista” cosa immagina?

Credo che una persona che non è nel mondo del design, o non ne è interessato, quando utilizza il termine “ceramista”, ha ancora l’immagine della persona anziana in pensione che per hobby passa il tempo lavorando al tornio. Fortunatamente però noto che sta aumentando l’attenzione verso quest’attività.
Come dicevo prima, c’è proprio un bivio, tra chi vede questa pratica come un’espressione artistica e altri che sono legati a cliché cinematografici o all’immagine della persona anziana che descrivevo poco fa.

Ritorno un attimo alla tua bio di Instagram, dove definisci ciò che fai come “mi sporco di argilla”, che mi fa pensare al fatto che giustamente la ceramica è il prodotto finito, che prima però deve affrontare un processo di trasformazione che parte proprio dall’argilla. Come li vivi questi cambiamenti della materia che spesso, come ci dicevamo prima, prendono strade tutte loro?

È una sensazione bellissima, soprattutto perché quando cominci a imparare a maneggiare la materia, questa è veramente indomabile. Sono appassionata nell’uso del tornio e agli inizi ero decisamente terribile, ero la peggiore del mio corso. Ricordo di essere tornata a casa un giorno e di aver detto al mio ragazzo che avrei lasciato perdere, mentre lui ha cercato di convincermi a resistere ancora un po’.
Ho scritto “mi sporco di argilla” proprio per fare riferimento all’inizio, a questo aspetto primordiale che mi dà, questo toccare la terra. Per giunta sono dei Gemelli, perciò la mia mente è molto aerea, dunque toccare la materia, sporcarmi è fondamentale per me, per radicarmi.

È importante, quando si approccia l’argilla, non avere paura di sporcarsi, di sbagliare, è questione di domarla. Non a caso una delle prime cose che si imparano a fare sulla ruota è il centrarla, che è un’attività anche molto meditativa. È l’unico momento in cui riesco a fermare il mio cervello, sento di avere i piedi ben radicati a terra e le mani nell’argilla, sono consapevole solo di quello, e diventa ancora più bello quando realizzi di averla centrata nel frattempo. Ovviamente, quando sono nervosa o stanca, mi rendo conto immediatamente che centrarla mi risulta molto più difficile. E il domarla continua anche dopo, sempre con rispetto, mai con imposizione, quando le dai una forma e magari decide di andare da tutt’altra parte, perché si tratta di materia viva, che cambia, che si trasforma nelle varie fasi della lavorazione.
Nel tempo, con i vari imprevisti a cui bisogna far fronte con questa materia, mi ha insegnato non solo a lasciare andare, ma anche che spesso si riesce a trovare una soluzione alle cose e soprattutto una leggerezza nell’attitudine alla vita.

Prima, anticipandomi qualcosa riguardo Swayze, mi dicevi che ci tenete particolarmente a legare la ceramica ad aspetti connessi alle emozioni, che comprendo, sentendoti parlare, sono molto importanti per te. Come si sposano questi mondi, oltre alla tua esperienza diretta di ciò che provi quando lavori l’argilla?

Stando dall’altra parte, ovvero insegnando, vedi l’approccio delle altre persone alla ceramica, ed è molto interessante. La parte che insegno io è quella del tornio e le persone, quando arrivano, sono sempre molto motivate dopo aver visto una mia dimostrazione, poi si mettono all’opera e ovviamente si innervosiscono. A quel punto sono lì che cerco di dirgli di prenderla con calma e non preoccuparsi, perciò ho a che fare spesso con la loro frustrazione, devo capire il loro umore e di conseguenza come approcciarmi a loro.
Con leggerezza, bisogna cercare di far capire alle persone i limiti e le potenzialità che hanno, gli obiettivi da porsi. In base al momento o allo stato d’animo che si vive nella propria vita in quel momento, ci sono attività e obiettivi che possono essere più utili di altri: una persona che sta vivendo un momento di tensione potrebbe trovare sollievo nell’hand building, mentre un’altra che si sente bloccata nella sua vita, come mi sentivo io prima di trovare la ceramica, potrebbe preferire il tornio.

C’è un oggetto che hai realizzato in ceramica con cui hai un legame particolare?

Mi vengono in mente due cose.
Una è una teiera nera, che non venderò mai. È stata la prima volta in cui mi sono sentita designer anche nel fare ceramica. Mi piacevano le forme, le proporzioni ed è un design che continuo a fare. Quando l’ho vista realizzata, ero molto orgogliosa di quello che avevo fatto. È stato il momento in cui ho capito che non ero lì solo a fare dei cilindri, ma potevo fare molto di più, e che potevo applicare appunto la mia mentalità da designer alla ceramica, un mezzo espressivo.
L’altro è il primo piatto che abbiamo realizzato insieme con il mio compagno, Francesco Carrasso, che è architetto come me, ma anche illustratore, tatuatore e delle volte si dedica anche ai graffiti.
Erano anni che ci guardavamo e ci dicevamo che volevamo fare qualcosa insieme. Un giorno porto a casa il biscotto di due piatti, erano i primi che riuscivo a realizzare perché sono molto difficili da fare per via della facilità con cui si spaccano o si formano bolle, e glieli ho lasciati, data la sua insistenza nel voler fare qualcosa insieme. Mentre ero sul divano, lui si è messo a disegnare in blu un sole e una luna e me lo ha mostrato. Ci siamo guardati e abbiamo capito che era lui, lo abbiamo chiamato “il Sole, la Luna, è tutto Blu”. Io ho aggiunto la cristallina trasparente sopra, l’ho cotto, ho pubblicato le foto su Instagram e da lì è stato un boom su tutti i fronti. Sono arrivate moltissime richieste, abbiamo cominciato a venderli sulla piattaforma Factory Market, ci hanno selezionati per eventi a Milano e Napoli. È stato veramente tutto molto casuale, anche perché avevamo in mente di lavorare insieme su altro, ma da lì sono nate le nostre “ceramiche tatuate”, il cui nome si riferisce al fatto che il tratto dei disegni ricorda proprio quello dei tatuaggi. Ne abbiamo realizzati anche con grafiche diverse, ma quello con il sole e la luna rimane quello più richiesto e dunque il nostro talismano. Con quell’esperienza abbiamo capito che la nostra collaborazione funziona, e anche bene, con me che realizzo gli oggetti in ceramica e lui che ci disegna su sopra. Ognuno di noi continua a fare le sue cose, ma spesso ci ritroviamo per farne delle altre insieme, come degli arazzi e dei vasi a cui stiamo lavorando in questo periodo.

La vita da creativa ti spaventa mai?

Sì, c’è poco da dire, spaventa. Come dicevo prima, ho vissuto momenti in cui mi sono chiesta cosa stessi facendo, ma credo molto anche nel potere dell’energia collettiva, in questa sensazione di non sentirsi soli, anzi supportati l’uno con l’altro nella convinzione di potercela fare. Mi aiuta parlare con persone nella mia stessa situazione, condividere assieme le stesse difficoltà, sono un grande appiglio per me.
La voglia di vivere una vita creativa con tutte le incertezze del caso per me è più forte della mia paura di restare senza lavoro o altri timori. Lo stress fa parte del pacchetto del mondo in cui viviamo, ma il trucco forse è capire quali sono le condizioni che ti aiutano a patirlo meno. Per me, ad esempio, lavorare al di sotto di qualcuno e ai ritmi di qualcun altro è uno stress più grande di quello che provo nel trovarmi il lavoro da sola ogni mese.
Un’altra cosa utile è cercare di non essere snob nell’avere paura: siamo cresciuti con l’idea che dobbiamo saper fare tutto, rispondere a tutto, non dobbiamo mai esporre i nostri sentimenti o le nostre paure, e non ci è stato invece insegnato di condividere le nostre debolezze, i nostri timori, i nostri limiti. Parlarsi con onestà è difficile, ma aiuta ad attirarsi le persone giuste e a stare fuori da dinamiche troppo competitive.

contributor
Mostra Commenti (0)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Un messaggio

Frizzifrizzi è sempre stato e sempre rimarrà gratuito. Si tratta di un progetto realizzato ogni giorno con amore e con impegno. La volontà è di continuare a farlo cercando di tenere al minimo la pubblicità. Per questo ti chiediamo una mano — se vorrai — con una piccola donazione. Potrai farla su PayPal.

GRAZIE DI CUORE.