Si comincia con singole silhouette e si finisce con vere e proprie folle di personaggi, ovviamente super-stilizzati perché pur sempre di logo si tratta, e per di più di logo modernisti, protagonisti di LogoArchive fin dal principio di questo bel progetto editoriale multipiattaforma (è iniziato su Instagram per poi espandersi su carta e su decine di altri account nazionali, per dare il giusto risalto alle diverse tradizioni progettuali dei vari paesi) lanciato nel 2015 dal designer britannico Richard Baird.
Il nuovo numero della fanzine, il nono, ruota appunto attorno a tante varianti della figura umana, con logo degli anni ’60, ’70 e ’80 realizzati da alcuni grandi nomi del design del ‘900 per le attività più disparate (ospedali, istituti scolastici, ristoranti, associazioni benefiche, aziende petrolifere, industrie di giocattoli, canali televisivi, assicurazioni, moda, sport).
Come già accennato, invece di essere raggruppati cronologicamente, i simboli sono disposti in ordine crescente di elementi: da un solo “omino” fino a piccoli gruppetti da sette, da otto e da nove. Mini-folle in forma di logo che, come spiega Baird, incarnano il concetto di “influenza sociale”, centrale nel mestiere della progettazione grafica.

Ad arricchire un libriccino già curatissimo (ma quella di LogoArchive è una escalation, numero dopo numero, di piccole finezze: a volte semplici dettagli, altre collaborazioni e sorprese all’interno — o nei materiali stessi — della fanzine) ci sono due inserti.
Uno, stampato su carta rossa o blu, presenta il logo (progettato da Julien Hébert) di Expo 1967, l’Esposizione universale che si tenne in quell’anno a Montréal, in Canada. Sul retro c’è un testo che racconta come quello che doveva essere un semplice progetto di design — con antiche rune rappresentanti l’uomo a formare un globo e un messaggio di unità — diventò invece un caso politico, coinvolgendo un gran numero di persone e arrivando addirittura sui banchi del parlamento canadese.

Il secondo inserto, invece, si basa sul concetto di “intermittent break”. Questo sostiene come, nella risoluzione collettiva dei problemi complessi, l’influenza degli uni sugli altri aumenti il livello medio di prestazione del gruppo ma abbassi quella della “migliore soluzione” partorita dal gruppo stesso: da qui l’idea di isolare in maniera intermittente le persone dal lavoro altrui, così da ridurre l’influenza, mantenendo alto sia il livello complessivo che quello delle singole soluzioni.
L’idea, oltre ad essere riportata come testo, è anche “incarnata” — attraverso poche, semplici pieghe — dal medesimo inserto.
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