Nell’ottobre del 2016 gli abitanti di Gorino, piccola frazione di un paesino di meno di 4000 anime sul delta del Po, in provincia di Ferrara, scesero in strada (l’unica che collega la frazione al paese) e con i bancali di legno bloccarono l’arrivo di un pullman in arrivo da Bologna. Su quel pullman c’erano 12 donne e 8 bambini. Migranti. Che, su decisione del prefetto Michele Tortora, avrebbero dovuto essere ospitati in un piccolo ostello locale.
I video e le immagini di quelle proteste e quelle barricate fecero il giro di telegiornali, quotidiani e talk show. Una piccola, minuscola comunità aveva innalzato a suo modo un muro, ribadendo che né a Gorino (suppergiù 600 abitanti) né a Goro c’era posto per quelle 12 donne e quegli 8 bambini.
Nella flusso continuo di notizie su quella che i media dipingono come l’emergenza migranti, quello di Goro-Gorino è solo un caso tra tanti, ma emblematico. E se ne parla in Socio- Social- Design, un piccolo saggio che affronta il tema delle metodologie e delle strategie di progettazione come strumento per offrire nuove prospettive (e potenziali soluzioni) al fenomeno delle migrazioni e all’integrazione con le comunità nelle quali i migranti si stabiliscono.
L’autore, Matteo Moretti, più volte apparso sulle pagine di Frizzifrizzi, è un designer, ricercatore e docente che insegna presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino e presso la Facoltà di Design e Arte della Libera Università di Bolzano. Proprio a Bolzano Moretti — che si occupa principalmente di visual journalism, data visualization, socio-design e social design (su questi ultimi due termini tornerò dopo) — ha contribuito alla nascita di Design for Migration, una piattaforma digitale che, dal 2018, cerca, studia e raccoglie su un sito tutti quei progetti europei (nel momento in cui scrivo sono 23) che, attraverso il design, si occupano di migrazioni, stimolando il dibattito e promuovendo l’integrazione dei migranti.
A un anno dall’inizio di quell’esperienza, il libro Socio- Social- Design, pubblicato da Corraini, fa il punto della situazione, focalizzando l’attenzione su 5 dei progetti più interessanti tra quelli segnalati finora da Design for Migration, analizzandone i percorsi, intervistando i progettisti, riflettendo sui risultati e tracciando — esplicitamente — dei possibili percorsi e delle “buone pratiche” per chi voglia mettersi in azione con progetti similari.
Quelle scelte da Moretti per l’inclusione nel suo saggio/guida sono le iniziative che si collocano in quello spazio fertile e cangiante che si apre tra due tipologie di progettazione, denominate appunto socio design e social design.
Qui, come promesso in precedenza, è il caso di spiegare di che si tratta.
Di cosa parliamo quando parliamo di socio design? La definizione, spiega Moretti, è del sociologo e urbanista svizzero Lucius Burckhardt, che nel 1980 parlò di «un design orientato al sociale, capace di impattare sulla qualità delle relazioni sociali, verso l’attivazione di vere e proprie trasformazioni e cambiamenti».
Attraverso la progettazione di oggetti, in pratica, si interviene sulla società e sui rapporti tra le persone che ne fanno parte.
Un esempio: Cucula, che a Berlino riunisce migranti che imparano a produrre sedie e mobili progettati da Enzo Mari ma realizzati coi pezzi di legno delle navi con cui sono arrivati in Europa. «Un gesto tanto forte quanto semplice che trasforma alle stesso tempo un oggetto quotidiano in una potente opera d’arte», scrive Moretti.
In quanto opera d’arte e oggetto di design frutto del lavoro di chi — per le politiche sulle migrazione — resterebbe escluso dal mondo del lavoro, la sedia di Cucula funziona al contempo come semplice sedia ma anche come messa in discussione di un sistema.
Ma Cucula, così come gli altri progetti protagonisti del libro — Talking Hands (Italia), Stregoni (Italia), Senza peli sulla lingua (Italia) e Lampedusa Cruises (Paesi Bassi) — è anche un’iniziativa di social design, che ha cioè l’obiettivo di includere persone che solitamente sono tagliate fuori dal mondo del lavoro e del mercato.
Un approfondimento sui due termini viene offerto in Socio- Social- Design, che si articola in 3 sezioni: la prima è dedicata alla parte teorica e alla presentazione sia del libro stesso che di Design for Migration; la seconda raccoglie i progetti ed è accompagnata dalle interviste ai progettisti; la terza mette a confronto le diverse esperienze e prova a fornire una base di partenza per future realtà di questo tipo, con l’intento di buttare giù i muri che — fisicamente, metaforicamente o idealmente — costruiamo, come a Gorino. E di farlo in maniera intelligente, tenendo conto delle complessità del mondo e di un fenomeno come quello migratorio.