Quello che viene venduto ai turisti, oltre alla famigerata “esperienza”, è il paesaggio da cartolina. O meglio, ciò che viene venduto è un pacchetto composto da due elementi principali: il primo è l’attesa che precede la partenza, costruita attraverso decine, centinaia, migliaia di immagini che mostrano ciò che si andrà a visitare; il secondo è il ricordo di ciò che si è visitato, fissato nelle fotografie che il più delle volte vanno a sovrapporsi (medesimo punto di vista, medesimo scorcio, atmosfera il più simile possibile) con le figure già viste prima di partire. L’antropologo francese Marc Augé parla dunque del viaggio come di una verifica: «per non deludere, la realtà dovrà assomigliare alla sua immagine».
Tutto quel territorio che non rientra in questi canoni, o che non permette al mercato di manipolare la realtà al punto tale da renderla perlomeno simile alla sua immagine da opuscolo turistico, viene messo ai margini, rimosso dagli itinerari e — quando possibile — dalle mappe.
Talvolta, tuttavia, ciò che viene tagliato fuori è anche ciò che è più interessante, nel senso etimologico del termine — inter est, che si trova in mezzo.
È lì, tra i confini di una zona turistica e l’altra, lì dove la “realtà reale” si manifesta, che è più facile incontrare quella che Gilles Clément chiama l’arte involontaria, definita dallo scrittore e paesaggista francese — che al tema ha dedicato un consigliatissimo trattato breve pubblicato in Italia da Quodlibet — come «il felice risultato di una combinazione imprevista di situazioni o di oggetti organizzati conformemente alle regole d’armonia dettate dal caso».
Prendiamo la Francia, dai più identificata unicamente con la sua capitale, Parigi, o con i tanti itinerari minori — Provenza, castelli della Loira, coste della Bretagna, Costa Azzurra — costruiti attorno a temi come la bellezza, la storia, i sapori, le luci, e protagonisti di milioni di scatti simili gli uni agli altri, negli album privati o sui social network.
C’è però un’altra Francia, la Francia “tra” — inter est — le località più gettonate. Ed è la Francia al centro di un bellissimo progetto che si chiama Atlas des Régions Naturelles.
Nato su idea del fotografo Eric Tabuchi, con la collaborazione dell’artista Nelly Monnier, l’Atlas è un’opera in fieri, iniziata nel 2017 con l’obiettivo di realizzare un archivio fotografico della diversità del territorio francese, che Tabuchi e Monnier hanno scelto di catalogare seguendo la suddivisione delle cosiddette Regioni naturali (da qui il nome del progetto), che sono 500 e non coincidono con quelle amministrative.
Per ciascuna di esse i due artisti hanno programmato di realizzare 50 fotografie, mirando dunque ad arrivare a un totale di 25000 scatti: un’impresa immane che Tabuchi e Monnier prevedono di concludere in 10 anni, finanziando il viaggio attraverso la vendita di stampe in edizione limitata di quanto via via prodotto.
Fabbriche, silos, case di campagna, monumenti, insegne, paesaggi naturali, alberghi, bizzarre architetture, balle di fieno in mezzo al nulla, camion decorati, antenne giganti, acquedotti, antichi resti ed edifici in rovina stanno gli uni di fianco agli altri, insieme a tavole dipinte a tempera da Monnier e dedicate a dettagli come sculture, lettering delle insegne o decorazioni delle case.
Le fotografie di Tabuchi — che non è nuovo a iniziative del genere, essendo l’autore di un altro atlante fotografico, quelle delle forme architettoniche — dimostrano una grande sensibilità e una capacità fuori dal comune nel cogliere la bellezza là dove apparentemente non sembrerebbe esserci, riuscendo anche ad esaltare, tra le righe, quell’arte involontaria di cui parla Clément, fatta di accostamenti, tracce, apparizioni, ideali isole nelle quali sembrano sorgere gli elementi immortalati.
Di recente, dopo due anni di lavoro, il materiale finora raccolto è stato messo online sul sito dell’Atlas des Régions Naturelles, dove è anche possibile acquistare le stampe e seguire, attraverso un diario, gli spostamenti di Tabuchi e Monnier.
Il progetto, che va avanti anche grazie al supporto del CNAP, Centre national des arts plastiques, e del Conseil d’architecture d’Urbanisme d’Indre et Loire, non è tuttavia pensato per il solo territorio francese.
«L’Atlas», spiega Tabuchi, «intende porre le basi di un sistema di rappresentazione, attraverso la fotografia, per un archivio digitale applicabile a qualsiasi altro paese. Di conseguenza, in questa impresa non vi è alcun pregiudizio diverso da quello di mostrare l’estrema diversità degli oggetti costruiti dall’essere umano e che, posti alla base del paesaggio, costituiscono qualsiasi ambiente abitato».