Si sente spesso dire che tradurre equivale a tradire. L’assonanza tra i due termini e il fatto che trasportare un’espressione o un concetto da una lingua o da una cultura all’altra implica, talvolta, dover apportare delle trasformazioni, traggono in inganno. In realtà l’etimologia ci dice che tradurre viene da trans ducere, quindi condurre oltre, idealmente o letteralmente al di là dei confini.
È in questo senso che interpreto il lavoro di Gala Rotelli, designer di gioielli e oggetti che prendono ispirazione dalla forme e dalla vitalità della natura, dai colori e dalla luce delle opere d’arte, dall’intensità dei ricordi. Gala — che è cresciuta in una famiglia di artisti e architetti, e dunque ha imparato a respirare fin da piccola la sacralità dell’atto creativo — non tenta di imitare né di ingabbiare ciò che è inimitabile e inarrestabile, ma prova invece a tradurre, appunto nel significato di trasportare altrove, oltre, riuscendo in maniera abile e sottile a mantenere un legame tra l’oggetto prodotto e l’ispirazione di partenza: un legame fatto di sensazioni.
In occasione di Lux Lucis, una presentazione che si terrà nel suo laboratorio milanese il 19 settembre, ho pensato di intervistare Gala.
Come spieghi sul tuo sito e racconti nelle interviste, sei cresciuta in una famiglia di architetti e artisti. Che aria si respirava in casa tua?
Una parte della mia famiglia produceva e vendeva arredamenti da fine ‘800/inizio ‘900, mia madre e mio padre sono entrambi architetti anche se mia mamma si è sempre occupata di interni e mio padre è un artista. Questa cosa credo che sintetizzi un po’ il modo in cui mi hanno cresciuta: mi hanno lasciato la libera di fare ciò che volevo ma la conditio sine qua non era la presenza di senso di responsabilità e serietà. Mi hanno dato grande libertà espressiva e poi traiettorie educative molto precise da seguire.
Io sono cresciuta in campagna, quindi con tantissimo spazio vuoto intorno. Spazio che per lo più volevo riempire con colori, tele, racconti, messa in opera di teatrini, marionette che prendevano vita e diventavano spettacoli.
Mio padre ha sempre viaggiato tanto e ogni volta che tornava mi portava un pezzetto di mondo, poi dipingevamo insieme.
Mia mamma è sempre stata più stanziale, molto più rigorosa e rigida.
So che i tuoi genitori frequentavano anche Fernada Pivano, della quale notasti i tanti anelli.
Ho incontrato Nanda la prima volta a 13 anni, siamo andati a casa sua in centro a Milano e ricordo scaffali pieni di libri. Indossava gli anelli di Sottsass (e non solo). Poi per i miei 18 anni, momento per me di grande crisi, mi regalò una collana di lapislazzuli e una lettera in cui mi diceva che è necessario continuare a studiare tutta la vita per fare bene il proprio lavoro. Spero di averne sempre tempo e possibilità.
Immagino che anche il tuo nome, Gala, abbia dietro una storia interessante. Ovviamente la prima cosa che mi viene in mente è la moglie di Dalì.
Sì, sicuramente il primo riferimento è a lei, non solo perché fu la sua musa, ma sopratutto perché fu in grado di gestire il caos di un genio. Non era bella ma era molto intelligente, capace di calibrare il suo fascino e completare un artista istrionico come Dalì. Il secondo riferimento è invece al termine greco gala/galactos, ossia latte: a mio padre affascinava la purezza del bianco, il suo candore.Terzo riferimento, che per destino si è legato a ciò che faccio: gala significa anche ornamento.
Secondo Munari l’artista usa la fantasia, il designer la creatività. Tra questi due mondi, quando hai scelto l’università da frequentare, hai optato per architettura, quindi per la progettazione, la creatività, ma hai poi studiato anche arte moderna al Sotheby’s Institute of Art, quasi a non voler “tradire” nessuna delle due influenze familiari.
Qual è la sintesi — se ce ne può essere una — che hai tratto?
Ho scelto Architettura perché mi sembrava l’università più completa per imparare a progettare, andando poi negli anni a approfondire aree specifiche (cosa che continuo a fare ogni giorno in realtà) ma sicuramente avrei voluto studiare anche materie importantissime che ad architettura vengono trascurate come Arte moderna, semiotica, antropologia della forma. Studiare Arte è stato un modo per cercare di colmare queste lacune.
Sempre Munari dice che la fantasia (e di conseguenza creatività, che è formata da fantasia + funzione) nasce dai collegamenti. Più una persona conosce, e curiosa, scopre dei linguaggi, più potrà fare questi collegamenti e crearne di nuovi, dando vita a nuove idee. Arte è stato un modo per cercare di conoscere altri linguaggi e poi provare a trovarne uno mio.
Cosa significa, per te, progettare?
Io parto da un’idea, la cerco tra i linguaggi degli altri artisti, nella natura che mi circonda, nei libri, nelle scenografie. Ricerco. Solo dopo disegno e realizzo il prototipo per vedere se è realizzabile, se rende l’idea.
Ti faccio due esempi.
Per questa collezione l’idea era la luce. Allora ho scelto dettagli delle mie opere preferite che avevano scorci in cui la luce, a me, sembrava viva (le gonne delle ballerine di Degas, i tulipani di Van Gogh, la conchiglia della Pala di Brera). Ho preso questi dettagli e li ho trasformati in un render, poi ne ho fatto il modello e i prototipi che rendevano l’idea sono entrati nella collezione.
Secondo esempio: amo guardare dentro le finestre delle case degli altri o, viceversa, guardare dalla finestra il paesaggio. Avrei voluto realizzare una collezione di bracciali ispirata a queste “viste” così intime, di modo che ciascuno potesse portare con sé un paesaggio del cuore anche dall’altra parte del mondo. Ho fatto diverse prove ma nessuna rendeva abbastanza o perché i dettagli non erano precisi o perché il design era troppo lezioso o perché il gioiello diventava poco indossabile. Questa è — per ora, dato che non demordo — una collezione non completa, che quindi non rispecchia i miei criteri di buona progettazione.
Punti molto su un concetto, quello del “Poetic Design”. Ti va di approfondire?
Per me “Poetic Design” è tutto ciò che è in grado di mantenere la sua bellezza nonostante fragilità e imperfezione. I miei oggetti sono artigianali quindi spesso leggermente diversi l’uno dall’altro: questa caratteristica è una caratteristica di verità a cui non voglio rinunciare. In un mondo di immagini artefatte e digitali vorrei che i miei prodotti mantenessero la loro autenticità, comprese le piccole difformità che li rendono più reali.
“Poetic Design” poi è quel dettaglio che ti fa sorridere: per me è l’odore della carta, iniziare un nuovo libro, la luce del mattino dalla finestra, il caffè senza zucchero appena sveglia. Vorrei che a qualcuno poter indossare o potersi circondare dei miei oggetti desse la stessa sensazione.
E poi ci sono le “Poetic Girls”.
Le “Poetic Girls” sono semplicemente quelle ragazze che fanno attenzione a tutto questo, che sanno dire grazie, che hanno voglia di costruire nuovi orizzonti, che non hanno dimenticato né i sogni né le passioni e lavorano con costanza per realizzarli. La nuova collezione, Lux Lucis, è dedicata anche a questo: alla luce che ciascuna delle “Poetic Girls” io immagino abbia nascosta nel cuore. Una sorta di filo di luce (come il neon di Fontana esposto all’ultimo piano del Museo del Novecento o i giochi con le torce di Bruno Munari) che permette a ciascuna di noi di ritrovarsi anche nei momenti bui seguendo ciò che ama.
C’è anche una poesia di Ezra Pound che amo molto e dice: «ciò che ami non ti sarà strappato. Ciò che ami, i tuoi sogni, sono quella luce che rende una ragazza poetica».
Qual è, nel jewelry design, il periodo secondo te più interessante?
Amo moltissimo l’Art déco, anche nei gioielli, quindi ti direi 1925, ma la realtà è che ogni epoca ha linguaggi e stili personali interessanti. Anche ora: l’avvento della tecnologia 3D permette e permetterà grandi trasformazioni.
Un altro concetto che esce fuori spesso, nelle interviste che hai fatto, è quello della memoria.
Come si traduce un ricordo — personale o collettivo — in un gioiello o un oggetto decorativo?
Ti faccio un esempio di memoria personale. Ci sono due collezioni di vetri a cui tengo molto. La prima si chiama Oggetti sospesi e sono bottiglie di vetro trasparente con diversi tappi “sospesi”, appunto. C’è il palloncino rosso che vola in cielo, la farfalla, una stella a cui si accede da una scalettta o un pesce che si tuffa: sono tutti oggetti tra cielo e terra, in bilico. Avevo disegnato questa collezione quando stavo terminando il corso da Sotheby’s e dovevo decidere se buttarmi a tempo pieno nel mio progetto. Mi sentivo sospesa tra Londra e Milano, tra un lavoro fisso e un lavoro autonomo, tra il desiderio e la paura, tra la sicurezza e l’incertezza. E sono nati loro.
La seconda collezione è Scrigni di Vetro: sono palle di vetro decorate con puntini colorati applicati con bacchette. All’interno di ciascuno c’è la nuvola, il fulmine, la stella o il sole. È un piccolo omaggio alla capacità creativa di ciascuno di noi: ci sono pensieri nebulosi, fulminanti, illuminanti e splendenti. Questa collezione è nata confrontandomi con un’amica che, come me, fa un lavoro creativo e indipendente: in certi momenti ti sembra di non procedere, in altri tutto improvvisamente trova una quadra. Ho dedicato questa serie alle nostre chiacchierate.
Mentre l’anello Giotto, ispirato alla Cappella degli Scrovegni, è per me simbolo di memoria collettiva.
In entrambi i casi sono ovviamente piccoli elementi a raccontare una storia, e chi osserva deve esser in grado di osservarli e ascoltarli.
Crei gioielli ispirati a Yves Klein, a Pollock, a Monet, oppure ispirati alle forme della natura e al cosmo. Quali sono le fasi della progettazione di un gioiello, dall’ispirazione alla realizzazione? Gli oggetti li approcci in maniera differente?
Ci sono tante cose che voglio dire (te ne sarai accorto in questa intervista!) perciò parto molto spesso dal messaggio che voglio trasmettere. Faccio molti schizzi a mano, poi li trasformo in 3D, che in seguito diventa una cera, che viene poi fusa, trattata, pulita e placcata a mano da maestri orafi.
Anche per gli oggetti parto dall’idea, guardo tante immagini, poi ad un certo punto arriva il momento di fare il render, mi metto a computer e mi confronto con gli artigiani di riferimento. Per me si tratta di un percorso identico anche se i materiali sono differenti.
Un materiale è appunto “solo” un materiale o può essere un punto di partenza, una scintilla, in base a come può essere trasformato e a ciò che ti permette di fare?
Per creare un oggetto è necessario conoscere il materiale con cui sarà realizzato. Alcuni miei prototipi sono rimasti tali perché il materiale non mi permetteva di fare ciò che avevo immaginato ma sicuramente è anche vero il contrario: provando si trovano nuove forme. Io realizzo personalmente solo i prototipi dei gioielli mentre per i vetri e le ceramiche mi affido ad artigiani esperti, perciò il dialogo con loro, la loro pazienza e voglia di insegnarmi sono importantissimi.
Sei partita con piccole produzioni e stai iniziando a fare collaborazioni con altri marchi (installazioni per Acqua di Parma, centro tavola per il ristorante della chef stellata Viviana Varese, gioielli per un marchio di abbigliamento, Luce studio). Come cambia il tipo di lavoro tra il lavorare da sola e farlo con qualcun altro?
Ho iniziato e continuo a produrre seguendo il mio intuito, ma direi che la differenza sta qui: quando progetto per me racconto una storia che ho inventato io, quando progetto per un altro brand racconto la storia di qualcuno che mi ha spiegato brevemente la trama.
Quando progetto per me ricerco i miei messaggi, mentre se il committente è qualcun altro (sia esso un brand o un privato) ricevo una sorta di brief e traduco la sua idea in un oggetto.
Per Acqua di Parma avevo indicazioni riguardanti le dimensioni molto difficili da sviluppare con il vetro, e tematiche strettamente legate alle loro fragranze. Ho interpretato a modo mio: ho trattato gli agrumi come gioielli della natura mettendoli sotto campane di vetro, come se fossero da proteggere.
Per Viviana l’indicazione era il colore: ho voluto dare al vetro la forma naturale del sasso lavorando su cromie sature che spiccassero nel locale.
Mi piace molto confrontarmi con questo tipo di progetti perché mi permette di aprirmi a nuove realtà senza isolarmi, e collaborare per identità specifiche mantenendo comunque il mio stile.
Spero anzi di poter continuare su questo percorso.
Hai un account Instagram molto curato, nel quale si nota soprattutto un’attenzione maniacale ai dettagli e ai colori. Che tipo di strategia hai deciso di usare sui social?
Amo molto la fotografia quindi cerco di unire foto che a me piacciono, mood che mi ispirano e pensieri sparsi che leggo o scrivo. Sicuramente mi piacerebbe riuscire a farmi conoscere anche maggiormente all’estero. Ci sto lavorando in questo periodo, per il futuro.
l 19 settembre farai una presentazione a Milano. Di che si tratta?
Presenterò la nuova collezione in collaborazione con Luce Studio e The Pump Factory Milano, due brand di due giovani imprenditrici di abbigliamento e calzature che hanno come me un’attenzione particolare per la luce e il colore. L’evento si chiama Lux Lucis, come la collezione, e sarà caratterizzato dalla presenza di una luce che illuminerà i gioielli.
Per l’evento verranno create anche delle composizioni floreali da Domitilla Baldeschi e tutto l’evento verrà sponsorizzato da Sensi Vini, un’azienda a cui verranno affiancati i miei orecchini ispirati alla foglia di vite.
Ho voluto unire tutte queste realtà imprenditoriali, creative e femminili perché sono convinta che sia bello creare nuove collaborazioni e che, come diceva Munari, «da cosa nasce cosa».