Nei film e nelle serie tv ambientate in carcere vediamo coltellacci costruiti con spazzolini da denti e tutta una serie di improbabili utensili ricavati quasi dal nulla da ancor più improbabili detenuti-MacGyver.
Finche dura l’effetto “sospensione dell’incredulità”, tutto bene. Poi solitamente liquidiamo quelle scene di sorprendente ingegneria carceraria come pura e semplice fiction, magari sì ispirata alla realtà ma fortemente esagerata.
Tools of Disobedience però dimostra che, come spesso succede, la realtà supera la fantasia.
Opera dell’artista svizzera Mélanie Veuillet, il libro raccoglie gli strumenti fabbricati dai detenuti dei carceri della Svizzera francofona. O meglio, quelli che sono finiti nelle mani delle guardie e sono stati confiscati, fotografati poi da Veuillet su sfondo neutro come fossero i pezzi della collezione di un museo o i reperti di qualche civiltà1.
Ci sono armi, bong per fumare, corde per scappare, radio. E ricordano molto i piccoli gioielli di design realizzati con gli scarti nelle campagne e nelle periferie della Russia pre-Putin, protagonisti di un libro uscito dieci anni fa e intitolato Design del popolo.
Realizzato inizialmente come progetto di diploma, Tools of Disobedience è stato pubblicato solo di recente, lo scorso febbraio, dal piccolo ma prestigioso editore svizzero Edition Patrick Frey.