I pacchetti di Camel di Enrico Pantani

Da quando più di un anno fa scrissi di un sua mostra personale, cominciai a seguire Enrico Pantani su ogni social network in cui mi capitava di trovarlo, con addosso la bizzarra sensazione non tanto di entrare nella vita di un artista che stimo—come mi capita spesso di fare—ma di ritrovare qualcuno che conoscevo già, quasi fosse un amico d’infanzia che hai perduto di vista e poi lo ribecchi su Facebook ed è come se il discorso riprendesse dal punto esatto in cui era stato lasciato, come se gli anni e le fatiche e le gioie e i dolori che nel frattempo ciascuno s’è portato dietro fossero solo una piccola parentesi.

Sarà l’affinità da provinciali. Sarà un passato che ha probabilmente avuto più di un punto in comune. Fatto sta che quando vedo queste cose mi sento “a casa”.

Da qualche tempo Enrico si è messo a disegnare pacchetti di Camel.
Disegnare sui pacchetti di sigarette è uno di quei passatempi da bar di quando stai aspettando qualcuno per una bevuta ma intanto ti “porti avanti col lavoro” e sei già un po’ brillo e provi a far colpo sulla barista ma quella ti guarda storto e allora ti rintani di nuovo nel tuo frenetico scarabocchiare.

In realtà però Enrico si è messo a disegnare pacchetti di Camel per un altro motivo. Gliel’ho proprio chiesto: «perché li disegni, Enrico?». E allora lui mi ha mandato una lettera in cui spiega tutto.
La pubblico qua sotto, assieme ai pacchetti. E a quel che c’è attorno ai pacchetti: ci sono le mani, spesso sporche di colore. E c’è lo sfondo, quasi sempre in esterna—il paese, un parco, la campagna… Sfondo che a volte è lo stesso, altre volte no. Magari irriconoscibile, come un semplice muro o l’asfalto della strada. Solo in un’occasione si vede un interno: una biblioteca, quindi dove lavora Enrico. E dalla luce intuisci l’ora del giorno e il tempo che passa. Perché il tempo passa, sia che tu lo metta dentro una parentesi, lo consumi con una sigaretta o lo lasci fuori a prender aria.

* * *

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Da quando ho 16 anni ho il vizio di scrivere e disegnare su quaderni di piccolo formato.
Col passare degli anni ho iniziato ad usare anche taccuini più grandi; i racconti brevi (o gli accumuli di sensazioni chiamati ingenuamente “poesie”) hanno ceduto il passo a scritte appena leggibili che accompagnano disegni, scarabocchi, studi, collages, pitture, foglietti “scocciati” qua e là…

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Spesso li riapro, ci trovo dentro deliri o cose che mai avrei potuto dire a nessuno, prove di composizione che probabilmente compariranno in qualche tela di grandi dimensioni, insomma per me tenere questi quaderni è di un’importanza vitale.

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Da quando mi sono laureato (in lettere, a Firenze) ho svolto mille lavori, dal facchino al professore, dall’operaio al cameriere.
Poi ho trovato il mio lavoro: catalogare libri, guardarli, sfogliarli, studiarli, metterli sugli scaffali, proporli, amarli, annusarli, giocarci.
Insomma, faccio il bibliotecario.

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Avere un taccuino e fare il bibliotecario non sono cose distanti fra loro. Devi comunque classificare, libri o idee non conta, ma devi classificare.

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A volte succede che uso il quaderno proprio quando sono in biblioteca, oppure mentre sto aspettando che le biblioteche della Rete Documentaria dove lavoro aprano le porte.

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Sì perché tre giorni a settimana io giro per tutte le biblioteche della provincia di Pisa (per le quali gestisco l’interprestito) e spesso devo attendere gli orari di apertura.
Solitamente il taccuino è con me. Solitamente.

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Un giorno, non ricordo quando, mi fermo davanti alla biblioteca di Vicopisano. Chiusa.
Accendo una sigaretta, cerco il quaderno nello zaino, non c’è, cazzo, non c’è, cazzo non c’è. Dramma, doppio dramma, dramma coi fiocchi. Dove disegno?

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La rabbia sale alle stelle, perché non c’è? Forse le mie figlie lo hanno preso, perché anche questo può succedere, forse l’ho dimenticato nello studio, è la prima volta, cazzo non so dove disegnare.

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Abbasso lo sguardo con la sigaretta in bocca, mi girano i coglioni, vedo il pacchetto di Camel, prendo l’uniposca nero (quello c’è), tolgo la velina trasparente e disegno il primo cazzo di pacchetto di sigarette. Incredibile, ho disegnato su un pacchetto di sigarette. Lo porto a casa, lo fotografo, lo classifico, lo guardo fisso.

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Per altre 40 o 50 volte faccio lo stesso gesto, senza giramento di coglioni, consapevole e felice.
Alla fine mi accorgo di averne molti, fermi in una scatola.

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Quelle minchia di scritte che dicono che le sigarette fanno male e via e via sono importanti per me, infatti sono una sfida continua per dare senso a questi disegni, didascalie che nascono sul momento e che acquistano un significato proprio per quel giorno, quell’istante, quel progettino fumante.
Questo è quanto.
—Enrico Pantani

co-fondatore e direttore
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