(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)

Il mestiere di fare laboratori: intervista a Noemi Bermani di Zoo

Un paio di sabati fa ero al Tutto molto bello, un torneo di calcetto, organizzato qui a Bologna, in cui si sfidano molte delle etichette discografiche della scene indipendente italiana.
Seduti sotto a un albero per goderci un po’ di ombra in una delle ultime, assolate giornate di settembre, io e mia figlia cercavamo di costruire un nido con rametti e aghi di pino.

Eravamo lì, alle prese coi primi “problemi tecnici” quand’è arrivata Noemi, carica di sacchi, sacchetti, buste piene di colorati fili di lana, cannucce lunghissime, biglie, perline, semi di lavanda, stecche di gommapiuma, nastri, fiocchi, scovolini pelosi e chi più ne ha più ne metta, andando pian piano a imbandire di meraviglie tattili & visive un intero tavolo, giusto accanto a noi.

Mia figlia, come al solito timida, ha buttato là un «ciao» a occhi bassi.
«Te la ricordi Noemi?», le ho chiesto io. E lei, col muso lungo d’ordinanza, «nooo».
«Ma come, il laboratorio delle scatole!».

Un minuto dopo — è bastato che Noemi la chiamasse con un invitante «Sveva, vieni ad aiutarmi?» — che lei era già là e non si sognava minimamente di badare a me.
Sono andato a ripescarla dopo più di un’ora e mezzo, durante la quale l’ho spiata da lontano e l’ho vista divertita e trasformata (da timidona a sperimentatrice senza macchia e senza paura: anzi, mi correggo, la macchia sì, più d’una, ma di paura neanche l’ombra).

Noemi Bermani (foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
Noemi Bermani
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)
Perché Noemi, Noemi Bermani — milanese di nascita ma ormai Bolognese a tutti gli effetti, cadenza compresa — se la vedi in azione, è magica. È una calamita. Gli occhi, i gesti, la voce… Allunga una mano e il più accartocciato e arricciato dei bambini—di quelli che se potessero ficcherebbero la testa sotto al pavimento, come gli struzzi—è lì accanto a lei che ascolta, che fabbrica, che si butta a capofitto nell’impresa.

«Io faccio laboratori da vent’anni. Per grandi e bambini. Dico sempre che è l’unica cosa che so fare ma la so fare bene. Non per incensarmi ma perché è una passione. Sai com’è, la Passione», mi ha raccontato Noemi prima dell’estate quando, seduti a un tavolino di Zoo, (molto più che un semplice) locale di cui è co-fondatrice e responsabile dei laboratori e del bookshop, ho avuto il piacere di fare con lei una lunga chiacchierata su — tra le altre cose — fare laboratori, Metodo Munari e albi illustrati.

* * *

La passione che coincide col lavoro. Non capita a tutti.

Hai detto bene, un lavoro, un mestiere.
Qualche anno fa mi ha intervistato Giovanna Zoboli di Topipittori e proprio lei ha parlato di mestiere. Io ho pensato: “oh, finalmente qualcuno che se accorge”.

Come ci sei arrivata a fare questo mestiere?

Ho avuto un tipo di formazione “inutile”, detto in senso positivo. Cioè ho fatto prima l’Istituto d’Arte e poi il DAMS [e qua ridiamo entrambi, ndr].
Per tanto tempo sono stata molto attiva nei collettivi universitari e mi sono occupata di antipsichiatria e dei processi creativi dentro alle “istituzioni totali”: la mia tesi di laurea è stata proprio su questo.
Dopo essermi documentata per anni su questo cumulo di sofferenza, alla fine non ne potevo più e, forse per reazione, è stato quasi un passaggio naturale avvicinarmi alla creatività dei bambini che, per certi versi, soprattutto per la spontaneità, è molto vicina a quella dei pazienti psichiatrici ma con molta meno “pesantezza”.

Dal laboratorio allestito durante “Tutto molto bello”, a cui ha partecipato anche mia figlia (foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
Dal laboratorio allestito durante “Tutto molto bello”, a cui ha partecipato anche mia figlia
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

Dove hai cominciato a lavorare coi bambini?

Nelle cooperative e nelle biblioteche. Cominciando lì a fare dei laboratori, anche se in maniera — col senno di poi — molto ingenua.
Io sono di Milano ma credo sia stata Bologna a indirizzarmi verso questo tipo di attività. Qui, in questo territorio, i bibliotecai sono degli eroi. Ma c’è un ambiente molto fertile, tra Fiera del Libro per Ragazzi, la Libreria Giannino Stoppani
Poi quand’è stata fondata, sempre a Bologna, la Scuola Popolare di Musica Ivan Illich, io, pur da non musicista, c’ero in mezzo per tantissimi motivi — amicali, amorosi… — e ho iniziato a occuparmi dei laboratori per bambini anche lì, soprattutto sul suono e sul rumore.

Come lo racconteresti il mestiere di fare laboratori?

Non è il mestiere dell’artista, anche se ci sono artisti bravissimi a fare laboratori — la tecnica e la competenza aiutano tantissimo — però in alcuni casi gli artisti sovra-determinano il laboratorio, sovra-determinano l’azione di chi partecipa al laboratorio.

Quindi non essere artisti, in questo lavoro, potrebbe pure essere un vantaggio.

Esatto. Ripeto: ci sono artisti, illustratori bravissimi a fare laboratori ma talvolta l’impronta che danno è troppo forte.
È un mestiere che è molto difficile imparare, soprattutto quando ho iniziato io.
Adesso c’è un corso di didattica dell’arte all’Accademia, che più o meno è mirato verso quella direzione. Io quando ho iniziato ho deciso di mettermi alle calcagna di altri che già lo facevano. Mi sono fatta le ossa così, finché a un certo punto del mio percorso ho fatto formazione presso l’Associazione Bruno Munari.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

Raccontami.

L’associazione è stata fondata dal figlio di Bruno, Alberto, esimio pedagogista, che ha deciso di sistematizzare a livello pedagogico-scientifico quella che era l’esperienza del padre.
Per me è stata una tappa molto importante, nel senso che si è legata a un’esperienza pregressa e l’ha in qualche modo organizzata, fornendomi una griglia piuttosto strutturata su cui basarmi, dandomi però modo di non essere troppo rigida, troppo “manichea”.

Lì hai imparato il cosiddetto approccio-Munari.

Sì ma quest’approccio secondo me non è un’esclusiva di chi lavora con metodo (e marchio) Munari ma più in generale di chi lavora seriamente sulla creatività.
Un laboratorio è un lavoro di progettazione di un dispositivo che deve servire a scatenare nelle persone (bambini o adulti non fa differenza) qualcosa che altrimenti non gli sarebbe venuto in mente. È questa la specificità — e la difficoltà — di questo tipo di attività.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)
Spiegami meglio.

Se tu fai un laboratorio di serigrafia, insegni una tecnica. Poi uno può fare un disegno bello o brutto ma deve imparare quella tecnica, deve seguire tutti i passaggi, A, B, C, D.
Nel tipo di laboratorio che faccio io, invece, tu potresti pure sparire, l’importante è come allestisci il dispositivo, che ti deve mettere in grado, se funziona, di far scattare qualcosa che altrimenti — come dicevo — non sarebbe venuta in mente.

Quindi mettiamo che tu progetti un laboratorio ma che poi sarò io a tenerlo. Funzionerà lo stesso? Non è importante anche il fattore umano?

No, certo, dipende anche da chi lo conduce. Quando dicevo che “puoi sparire” intendevo a livello tecnico ma a livello relazionale è molto importante che invece tu ci sia.

Prendiamo ad esempio Rose nell’insalata, il libro di Munari. Quello funziona anche senza che lì coi bambini ci sia Bruno Munari stesso. Basta un genitore, un insegnante, o comunque un adulto con un minimo di empatia e capacità di stare coi bambini.

Sì, l’empatia è fondamentale. Dirò una cosa banale ma, credo, corretta: l’operatore non ti dice cosa fare ma come fare. Ti può dare dei suggerimenti tecnici ma non c’è un modello.
La cosa interessante è che quando fai questo tipo di laboratori alla fine non c’è una cosa uguale a un’altra.
L’importante è che alla base ci sia una selezione molto precisa di elementi che verranno messi in gioco. Il succo del lavoro di progettazione di un laboratorio è proprio lì.
Perché il grande equivoco che bisogna scardinare è quello secondo il quale la creatività equivalga a “fai quello che vuoi”.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

Quanto lavoro c’è, in fase di progettazione?

Molto più di quello sembra. Anzi, è essenziale che sembri che non ci sia, ma c’è.
Per quanto riguarda l’ideazione, ovviamente il lavoro che c’è dietro è difficilmente quantificabile. Magari capita davvero che te lo sogni di notte anche se poi c’è da connettere quelli che sono gli stimoli a quella che è la progettazione.
Poi c’è un lavoro grosso di ricerca, anche fisica, dei materiali. Posso raccontarti un aneddoto a proposito di questo?

Certo!

Mascia Premoli, che tra l’altro hai segnalato anche tu anni fa, credo sia stata l’incubo dei ferramenta di tutta la Lombardia. Io ho ancora le sue tavolette del laboratorio delle texture. Una varietà incredibile.
Che se ci pensi il classico Laboratorio Munari sulle texture apparentemente è una cosa semplice: nient’altro che frottage su delle superfici. Ma dipende da come lo fai!

Quindi il lavoro di ricerca è fondamentale.

Sì, un lavoro molto grosso. E un rischio altrettanto grosso: quello di lasciare in disparte quest’aspetto. Lo dico anche come auto-critica. Perché magari non hai tempo e ti riduci a fare il laboratorio di frottage, per rimanere sull’esempio di prima, con dieci tavolette per altrettante tipologie di texture invece che con cinquanta.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

Hai citato Mascia Premoli. Hai altri siti/colleghi da segnalare?

Sì, c’è Millemodi di Paola Cappelletti.
Poi c’è Munaria di Michela Dezzani.

Una volta che impari a “progettare il dispositivo”, come hai detto tu, immagino che questo tipo di progettazione possa essere applicata a svariati tipi di laboratorio.

Sì, in teoria puoi applicarla a qualsiasi cosa. Laboratori sui libri, sul colore, sulla materia, sugli albi illustrati — ma quest’ultimo merita una parentesi a sé e se ti va possiamo tornarci più tardi.
L’ambito delle arti visive è comunque il più gettonato ma vale anche per il design, per il suono…
Tra l’altro trovo scandaloso che nonostante Munari abbia fatto laboratori straordinari anche sul suono, questi siano stati praticamente dimenticati.

Mi trovi difatti totalmente impreparato in materia.

A tal proposito apro una parentesi: sono riuscita a ritrovare dei suoi articoli originali riguardo a queste attività e mi sono fatta ricostruire da un amico falegname una “macchina dei ritmi”.
Ma, tornando a noi, potrà sembrare pretenzioso dire che questo tipo di progettazione può applicarsi a tutto però in effetti è così.
E la cosa meravigliosa è che i laboratori progettati e divulgati da Bruno Munari funzionano a qualsiasi latitudine e con qualsiasi età.
Quello che non finisce mai di stupirmi, neanche dopo vent’anni, è che magari ci possono essere situazioni in cui c’è un po’ più di timore, di esitazione, altre che invece sono più immediate, ma una volta che la “cosa” scatta, scatta.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

Tu tieni laboratori sia per bambini che per adulti. E nell’adulto lo capisci, credo, quando quel “qualcosa” scatta. Vedi che si è aperta una nuova finestra, che si è aggiunto un altro punto di vista e poi di solito l’adulto la esplicita questa epifania, in qualche modo te lo dice. Nel bambino, invece, come fai a capirlo?

Io non finirò mai di stupirmi della serietà e della concentrazione dei bambini quando svolgono questo tipo di attività.

“Giocare è una cosa seria”.

È da quell’espressione, da quell’attenzione, da quella serietà che capisci che sta funzionando.

Noemi al lavoro durante un laboratorio (foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
Noemi al lavoro durante un laboratorio
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

C’è più soddisfazione coi bambini o con gli adulti?

È una cosa molto diversa. Io a volte faccio proposte molto simili a bambini e adulti. Tempo fa ad esempio mi è capitato di fare un laboratorio sui segni con dei bambini di due anni e mezzo, con dei bambini di sette-nove anni e con degli adulti. Ovviamente con risultati molto diversi ma con lo stesso dispositivo, gli stessi materiali.
Con gli adulti dà soddisfazione il fatto di vincere delle resistenze e di vedere, dopo che si sono sbloccati, dei veri e propri miracoli.
Coi bambini invece c’è proprio l’incanto. Il privilegio di assistere al loro stupore, al loro mettersi in gioco, al loro modo di creare.

Hai parlato di resistenze. Anche a me è capitato di lavorare, in laboratori di scrittura, sia con bambini che con adulti e in effetti questo tipo di blocchi li ho visti solo coi grandi.

Sì, i bambini di solito hanno i loro tempi però dopo un po’ pigliano il via. Invece con gli adulti potresti andare avanti per quattro ore, senza che loro si stanchino di “resistere”.
Però mi sono capitati anche bambini bloccati ed è una cosa davvero spiacevole e molto difficile da gestire perché da parte dell’operatore ci deve essere rispetto totale riguardo al fatto di non avere un risultato prestabilito.
Con gli adulti invece mi sono capitati casi di “lamentazioni” croniche, di gente che tendeva a dare di qualsiasi cosa un’interpretazione psicologica.

Interpretazione che invece non c’è, giusto?

Infatti, e questo è importantissimo sottolinearlo.
Capita, soprattutto coi bambini, specialmente quelli piccoli, magari alle prese con attività polisensoriali, materiche, che un lavoro rispecchi in maniera molto precisa il carattere di chi lo svolge — immagina bambini di quattro anni, dove c’è quello che ti fa una montagna di cose, quello che invece punta all’essenziale… — ma, ripeto, non c’è nessuna intenzione di lettura o di interpretazione psicologica in questo tipo di laboratori.
Il brutto del mio lavoro è che mi capita raramente di seguire un gruppo nel tempo.
Anche quando lavoravo al Comune di Castelmaggiore, dove sono stata dieci anni e dove avevo un laboratorio stabile in biblioteca, alcuni di quelli che venivano li ho visti crescere ma di solito non li vedevo più di due o tre volte all’anno.

Parlami dell’esperienza di Castelmaggiore.

Erano anni in cui i fondi per la promozione della lettura erano tanti, comunque molti più di oggi, e la dirigente della biblioteca ha avuto un’idea molto intelligente, e cioè di non “sparpagliare” questi fondi ma di chiamare una figura professionale, fissa, che si occupasse dei laboratori sia a livello organizzativo che progettuale. Quella persona ero io e lì ho avuto la possibilità di realizzare ogni progetto. Non credo di aver fatto molti danni [ride, ndr].

Finché non hanno cominciato a tagliare i fondi.

Sì, è stato a quel punto che con altre due socie abbiamo deciso di aprire una piccola libreria a Casalecchio, che si chiamava Bradipo.
Erano 60mq. 30 occupati dagli albi illustrati e 30 dai laboratori.
L’esperienza è durata due anni e anche se purtroppo abbiamo chiuso per motivi economici non mi sento di dire che sia stata un fallimento perché era un posto molto frequentato e dove la gente veniva anche da fuori per fare laboratori da noi.

E sei entrata in Zoo.

Mentre stavamo chiudendo si è aperta la possibilità di confluire dentro a Zoo e l’ho fatto.
Qua mi occupo appunto dei laboratori e della parte bookshop, con una piccola selezione di albi illustrati.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

Qui da Zoo ci sono spesso eventi, mostre, presentazioni. I laboratori che progetti partono da lì?

Zoo è uno spazio molto complesso.
L’idea è di relazionarsi quando possibile a un evento ma non in maniera speculare, quanto piuttosto estrapolandone un elemento e sviluppando quello.

Prima hai accennato agli albi illustrati. Ti va di approfondire?

Tra i vari Laboratori Munari c’è quello chiamato Giocare con l’arte, che serve appunto per avvicinare alle opere d’arte e che ha tracciato il percorso da cui poi è nata tutta una certa didattica museale.
Come dice Kvĕta Pacovská, «l’albo illustrato è la prima galleria d’arte che il bambino visita», una galleria d’arte portatile, quindi puoi applicarci lo stesso tipo di approccio.
Non è indispensabile, ma spesso dietro al laboratorio c’è un libro di riferimento.

Come lavori, tu, su un albo illustrato?

Posso partire da un tema. Quindi, per farti un esempio, c’è il classico Laboratorio Munari sui formati, che può essere declinato in tantissimi modi, a partire da un libro dello stesso Munari, come Nella nebbia di Milano, ma anche con tanti altri albi. Ad esempio si può lavorare sulle lettere visto che quelle del nostro alfabeto hanno un’origine iconografica, si può ritornare a quell’origine per disegnare con le lettere, e illustratori che si sono cimentati con questa cosa ce ne sono tantissimi, contemporanei o del passato.
Oppure può esserci il tema dei colori, quello dei fili…

E la trama? Capita di partire da lì?

Sicuramente sì. Ma capita più di rado.
Per citarne uno, ho fatto un laboratorio sull’ombra partendo da diversi albi illustrati che parlavano di ombre.
Altrimenti succede più spesso il contrario: creare delle storie a partire da stimoli sensoriali.

Negli ultimi anni sono usciti svariati libri sul tema “sviluppare la creatività”. Mi viene in mente soprattutto Keri Smith. Che ne pensi?

Secondo me più ce ne sono e meglio è. Certo, bisogna sempre vedere la qualità: ci sono anche cose poco approfondite, troppo semplificate, o troppo furbe.
Keri Smith mi piace molto e secondo me lavora in maniera davvero seria.
È chiaro che c’è dietro un discorso commerciale — ad esempio la Smith ha pubblicato molto — ma metti allora Hervé Tullet. Quanti libri avrà pubblicato? Decine e decine, ma sono uno più bello dell’altro.
Quindi ben venga il discorso commerciale se poi dietro ci sono insegnanti e genitori che li usano.

(foto dall'archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell'infanzia)
(foto dall’archivio di Bradipo, Spazio per la cultura dell’infanzia)

A proposito di insegnanti. Come siamo messi, dal tuo punto di vista?

In Italia abbiamo avuto una scuola pedagogica che negli anni ’70 è stata tra le migliori del mondo.
Chi è un po’ del mestiere certe cose le dà assolutamente per scontate.
Poi però ti fai un giro nelle scuole e ti rendi conto che non è scontato proprio nulla. Ci sono ancora le fotocopie da colorare…
Anzi, te lo dico pure con una certa tristezza, noi — nel senso di noi laboratoristi — viviamo grazie all’ignoranza del corpo insegnante.
Non ci dovrebbe essere bisogno. O forse sì però…

Si vede anche dal fatto che i laboratori, o workshop come si preferisce chiamarli oggi, si moltiplicano. Come ci si orienta? Come si fa a capire la qualità e, soprattutto, è possibile capire la qualità?

Secondo me i bambini se ne accorgono benissimo. I genitori probabilmente no ma, come dicono anche alcune mie carissime amiche, spesso ai genitori basta “smollarli” da qualche parte per un paio d’ore.

* * *

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