In una mia vita precedente, prima cioè di “Simone il prof.”, “Simone di Frizzifrizzi” e “Simone di Freshcut”, ero “Simone che vuol fare il fotografo”. In quella vita — fatta di dischi fissi pieni di scatti, nottate passate su Photoshop a fare post-produzione, fine settimana di vagabondaggi nelle periferie in cerca di soggetti, incursioni su eBay in cerca di occasioni per trovare qualche buona reflex digitale low cost — ebbi modo di portare a casa qualche soddisfazione ma soprattutto di sperimentare tanti rifiuti.
Imprigionato, come molti altri, nel mondo bipolare dell’artista insicuro (all’epoca vedevo solo la prima parte della frase: artista; in seguito fortunatamente scoprii di essere solo la seconda: insicuro), passavo dalla gioia di esser stato selezionato per un sito di fotografia, una piccola mostra, un magazine online o in pdf (come ce n’erano tanti all’epoca), alla tragedia del rifiuto, del “ci spiace comunicarti che le tue foto non sono in linea col nostro progetto”, dei ben più crudi (e, cominciai ad accorgermene già allora, utili) “le sue foto non sono adatte/all’altezza dei nostri contenuti”, “hai ancora molto da lavorare” ecc. ecc.
Ovviamente mai mi sono sognato di replicare, piccato, ai rifiuti che ricevevo. A volte non rispondevo e basta, altre ringraziavo per i preziosi consigli. Di sicuro facevo sempre lunghe sessioni di autocritica: avrei dovuto studiar meglio quel che pubblicavano; come mi è venuto in mente di puntare così in alto?; qual è davvero il senso profondo della serie che ho appena inviato?; le mie foto sono all’altezza di quelle che vedo nel loro sito?, no!; qual è la posta in gioco?; voglio davvero fare il fotografo?
Alla fine la risposta a quell’ultima fatidica domanda si è rivelata in tutto la sua disarmante realtà. Era un no e, ripeto, per me fu una fortuna, per la quale debbo ringraziare tutti coloro che mi scrissero mail di rifiuto.
Ed è anche per questo che oggi non riesco a sopportare chi i rifiuti non li accetta (stando ora dall’altra parte della barricata, posso assicurare che sono molti). Al netto della possibilità di errore di chi valuta (che ci sono e sempre ci saranno) il non saper incassare un “no” lo considero come un segno di arroganza, di miopia, di eccessiva auto-indulgenza, di mancanza di attenzione e di criteri oggettivi di (auto)valutazione.
Facile addossare un proprio fiasco all’incompetenza di qualcun altro, al “pigliano solo quelli famosi”, al “chi seleziona non capisce un cazzo”, al fantomatico Sistema che è sporco che corrotto. Difficile invece fare autocritica e spulciare ogni propria mossa per capire dove si è sbagliato, cosa si sarebbe potuto migliorare, quanta strada c’è ancora da fare.
Autocritica che invece la fotografa israeliana Dana Stirling, newyorkese d’adozione, dimostra di saper gestire al meglio, addirittura trasformando i “no” in una originale pubblicazione che ha il sapore dell’atto catartico.
Dear artist, we regret to tell you, questo il titolo, è un libretto in forma di mazzetta, da aprire a ventaglio, scheda dopo scheda, per andare a leggere alcune delle mail di rifiuto ricevute dall’autrice. Che, come ha dichiarato in un’intervista al sito Feature Shoot, a lei in qualche modo sono servite e che sono soprattutto un modo per parlare — e dunque liberarsi — dei propri fallimenti, solitamente un tabù per qualsiasi artista, in quest’epoca in cui «si viene misurati», dice la Stirling, «da ciò che sei riuscito a fare e non dal percorso intrapreso».