Come usare il graphic design per vendere, spiegare, rendere più belle le cose, far ridere, far piangere e (di tanto in tanto) cambiare il mondo

«I graphic designer sono fortunati. Essendo coloro che creano gran parte della comunicazione mondiale, abbiamo un ruolo indiretto in tanti settori quanti sono i nostri clienti. In un solo giorno un designer può parlare di mercato immobiliare con un cliente, cure per il cancro con un altro e carrelli elevatori con un terzo. Immaginate quanto può essere noioso per un dentista, che non ha nient’altro da fare, tutto il giorno, che occuparsi di denti»
— Michael Bierut, tratto da Seventy-Nine short essays on design, Princeton Architectural Press, 2007

Classe 1957, cresciuto nel Midwest, ex vice-presidente della Vignelli Associates e socio dal ’90 di uno dei più importanti studi creativi del mondo, Pentagram, vincitore di centinaia di premi e, nel 2006, della medaglia AIGA (per un designer, l’equivalente di un Oscar), dopo aver partecipato l’anno prima alla conferenza annuale dell’American Institute of Graphic Arts cantando a cappella un’autoreferenziale versione dell’inno nazionale, Michael Bierut è una leggenda vivente, celebre non soltanto per i suoi lavori ma anche per le sue conferenze, i suoi interventi critici, il suo pensiero sempre lucidissimo, tagliente, non di rado provocatorio.

Dopo il suo primo libro di successo, Seventy-Nine short essays on design, che raccoglie appunto 79 saggi brevi scritti da Bierut dagli anni ’80 in poi e da cui è tratto il testo che ho riportato in apertura, il designer ha pubblicato con Thames & Hudson un volume intitolato How to… e sottotitolato col prolisso ed esplicativo … use graphic design to sell things, explain things, make things look better, make people laugh, make people cry, and (every once in a while) change the world.

A dispetto del titolo non si tratta di un manuale, quanto piuttosto di una auto-retrospettiva che analizza 35 progetti selezionati tra quelli dell’intera carriera di Bierut. Ma che però si portano dietro riflessioni e approfondimenti sull’intero processo creativo e dunque alla fin fine, in un certo senso, How to un manuale lo è, realizzato a sua volta con lo stesso metodo che il designer usa per i suoi lavori.

La prima lezione, dunque, arriva dal metodo usato per iniziare e portare a termine il libro: «essere paralizzati di fronte a un pezzo di carta vuoto», ha raccontato, «così non va. Ma poi ho realizzato che è esattamente il modo in cui io progetto. Quella paura di fare un segno sbagliato può impedirti di fare qualsiasi tipo di progresso. Così quasi tutte le volte in cui faccio un progetto dico “Ok, cominciamo col tirare fuori tutte le idee cattive”. Allora lavori su un’idea cattiva e sai che è un’idea cattiva ma in qualche modo accidentalmente lì dentro c’è la chiave per fare qualcosa di meglio».

https://vimeo.com/122095396

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