Il caffè americano e i film di Wes Anderson, i tatuaggi traditional e l’abbigliamento da lavoro, la fotografia analogica, i dischi in vinile e le vecchie copertine dei libri, la nostalgia come ragione di vita e uno sprezzante cinismo come modello di condotta, accompagnato da un’autoironia che giustifica tutto e il contrario di tutto e da un’affettata ossessione per tutto ciò che può essere etichettato come “autentico”, artigianale.
La cultura hipster, complice una capacità di diffusione delle informazioni (e dunque delle abitudini, dei gusti e delle mode) mai sperimentata prima d’ora, vive la paradossale contraddizione dell’essere allo stesso tempo controcultura e parte della cultura di massa. E, come tale, influenza profondamente i modelli — soprattutto estetici — del cosiddetto “mainstream”, che ne fagocita simboli e codici praticamente in tempo reale.
Se da una parte la portata “alternativa” viene quindi soffocata all’origine (scatenando patetiche e surreali quanto impossibili rincorse a rappresentare l’alternativa dell’alternativa, l’alternativa dell’alternativa dell’alternativa, e così via), dall’altra l’influenza dell’hipsterismo sulla comunicazione è stata ed è tuttora enorme e inarrestabile.
Sidney Lim, un giovane studente di Singapore, attualmente alle prese con l’ultimo anno di un corso in graphic design presso la rinomatissima Central Saint Martins di Londra — dunque uno che hipster, potenzialmente, lo è su tutta la linea, per anagrafe e ambiente in cui si trova a vivere e lavorare —, all’influenza di questa cultura/controcultura sul graphic design commerciale ha dedicato il progetto della sua tesi di laurea, realizzando un’approfondita pubblicazione intitolata Estd 1999 (l’anno in cui Lim rintraccia l’inizio dell’hipsteria) che ne analizza storia e l’evoluzione, confezionata in una impeccabile pubblicazione che ovviamente, in quanto a grafica, non poteva che essere profondamente influenzata dall’argomento in discussione.