Marangoni Design School: di cosa parliamo quando parliamo di design

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In via Cerva, a Milano, una volta c’era una banca. Lì dove fino a qualche anno fa i banchieri “giocavano” con la finanza, maneggiavano numeri e decidevano i destini di imprese e privati, ora ci sono aule piene di studenti, laboratori, uffici, spazi luminosissimi pieni di pareti e porte trasparenti, una biblioteca, una materioteca e una sala computer che sembra un centro di controllo della Nasa.

Il fatto che per una volta sia una scuola a prendere il posto di un banca — e non viceversa, come capita molto più spesso — lo prendo come il primo, indicativo ottimo indizio dei molti che andrò a raccogliere durante un giornata passata alla Marangoni Design School.

Forte di quasi 80 anni di storia alle spalle, con sedi sparse in tutto il mondo, un’alta percentuale di ingresso nel mondo del lavoro e una lunghissima lista di studenti poi diventati celebrità nel loro campo, l’Istituto Marangoni ha inaugurato lo scorso febbraio il campus di via Cerva, una nuova sede interamente dedicata al design, situata a poche “falcate” di distanza dal campus di via Verri, quello dedicato alla moda.

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Ma nell’edificio, che stato interamente ricostruito con l’idea di avere spazi su misura per l’attività della scuola, il posto più speciale, nella sua semplicità, è la caffetteria che s’affaccia su una grande terrazza con vista sui tetti di Milano (e basta lanciare l’occhio oltre quella distesa irregolare di comignoli vecchi e nuovi per vedere persino la Madonnina).

La caffetteria funge anche da salotto ed è lì, nel cuore informale della scuola, che inizia anche il mio viaggio all’interno della Marangoni Design School, tra odore di caffè, capannelli di studenti di mezzo mondo che chiacchierano in spagnolo, in cinese o in russo finché stanno tra coetanei del proprio paese, per poi passare a un globish contaminato da qualche parola di italiano quando lo scambio di idee si fa più internazionale, o quando qualche prof. si ferma e si siede a discutere tra i tavoli, le borse, gli zaini, le sciarpe, i portatili e le cartelline piene di progetti che di lì a poco finiranno su qualche tavolo da lavoro, pronti per essere completati, discussi o, se va male, ripensati da capo.

«È una scuola molto pragmatica e professionalizzante ma che dà anche un’ottima preparazione culturale», spiega Cristina Morozzi, storica penna del design italiano — giornalista, critica, curatrice e art director che dopo una vita passata nell’editoria lo scorso settembre è stata nominata Design Director of Education della scuola.

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È proprio al bar che incontro la Morozzi. Che prima di sparire e riapparire più volte nel corso della giornata, sempre elegantissima, lo sguardo di chi avrebbe mille storie da raccontare (e ne racconta: su Gehry, su Starck, Tom Dixon, Munari, Giovannoni…) ma si diverte di più ad ascoltarne di nuove, le antenne sempre pronte a captare ogni input, dentro e fuori dalla scuola. Che prima di sparire e riapparire, dicevo, aggiunge: «l’insegnante sta ai tavoli con gli studenti e mentre si fa teoria si fa anche pratica. Il rapporto insegnanti/studenti fa sì che ciascuno sia molto seguito».

I docenti, qui, sono tutti professionisti nei loro rispettivi settori di appartenenza, con una lunga esperienza sul campo.
Come Sergio Nava, direttore creativo e designer, oltre che insegnante. Nel luminosissimo laboratorio di prototipazione, immerso nel regolare ronzio delle stampanti 3D, Nava è circondato da vecchie e nuove tecnologie: cacciaviti e scanner tridimensionali, martelli e appunto stampanti 3D.

Definito dalla Morozzi — che nel frattempo è riapparsa — “l’uomo dei miracoli”, il laboratorio è il suo regno.
Qui si svolge la parte conclusiva di tutti i progetti legati al prodotto o all’accessorio e sempre qui gli studenti hanno modo di poter vedere, toccare e soprattutto testare (alla fine ma anche in corso di progettazione) la fattibilità di ciò che hanno realizzato.

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«La verità è che il mondo effimero e virtuale dei software 3D porta a far cose che finché rimangono su uno schermo sono bellissime ma quando poi diventano oggetto, materia, si scontrano con i problemi della realtà: le leggi della fisica, i limiti della materia», dice Nava, che fa l’esempio di una seduta disegnata da uno studente, che una volta diventata prototipo sembrava “un elefante appeso a uno stecchino”, finendo inevitabilmente per crollare e dimostrando che la struttura non era abbastanza solida da reggerne il peso.

Le stampanti 3D, quindi, non solo come strumento capace di far materializzare ciò che si è immaginato ma anche come mezzo per tenerti coi piedi per terra. Ché l’importante, innanzitutto, è che qualcosa funzioni!

Per questo gli studenti imparano pure a costruire prototipi di carta e cartone, come facevano tutti i designer e gli architetti prima che l’informatica entrasse in maniera tanto invasiva nel loro mestiere. E come a quanto pare fa ancora un mostro sacro come Frank Gehry che — come raccontano Nava e la Morozzi, nel frattempo lanciatisi in una intensa e a tratti nostalgica conversazione — è incapace di lavorare coi software di progettazione tridimensionale e quindi costruisce a mano dei meravigliosi modellini di carta e cartone, che poi i suoi assistenti “traducono” in pixel.

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Sergio Nava mostra come funzionano “le sue macchine”, aziona le stampanti, regala ai presenti un corso accelerato di stampa 3D, una versione ristretta di ciò che imparano gli studenti che, come racconta il prof., «quando vengono a contatto con questo tipo di macchinari sono tutti contenti perché li trovano interessanti ma poi, una volta che ne capiscono a pieno le potenzialità, sono ancora più felici perché capiscono che dentro alla stessa stanza possono concretizzare la loro idea dallo schizzo su un foglio, allo schermo, al prototipo».

Una volta testati, però, i prodotti escono per forza di cose fuori da quella stanza e, anzi, escono proprio dalla scuola, che si appoggia a tutta una serie di aziende per fabbricare il prototipo definitivo in scala 1:1, coi materiali reali.

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Si finisce per parlare dei fantomatici “maker”. E si parla di Tom Dixon, che prima di diventare “Tom Dixon la superstar del design” ha iniziato autoproducendosi. Un percorso che oggi, grazie alle nuove tecnologie, in tantissimi possono seguire.
Anche se molte volte gli studenti sono capace di sorprendere: Nava racconta di una classe in cui si stavano analizzando alcuni oggetti, dei pezzi di storia del design, cercando di capirne il processo adottato dal designer per poi utilizzare quello stesso processo per realizzare qualcosa di nuovo.
Era solo un’esercitazione ma a un certo punto, spiega Nava, i ragazzi hanno iniziato a discutere se ciò che stavano facendo fosse in qualche modo utile alla società!

La questione è che tutto ciò che fanno, alla Marangoni Design School, finisce nel loro portfolio finale. Portfolio che poi porteranno con sé al momento di fare colloqui per stage e lavori. E non vogliono rischiare di presentare prodotti già creati da qualcuno o prodotti totalmente inutili sui quali magari hanno passato un intero anno di lavoro.

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I portfolio stessi sono dei piccoli capolavori. Gli studenti li sviluppano da soli cercando il formato, le font, i colori, l’identità grafica e la carta che più valorizzino i progetti e che, soprattutto, raccontino del loro stile e del loro modo di essere.
Lungi dall’essere una mera rassegna di tavole e idee slegate tra loro, quei libri — ciascuno diverso dall’altro — sono un progetto editoriale coerente.

Questo è possibile perché qui anche i docenti fanno lavoro di squadra: a supportare lo studente in ogni progetto, soprattutto quando si tratta di lavori fatti in collaborazione con aziende (cosa che capita spesso: con Bolon, Valentino Orlandi, Dirk Bikkenbergs, Caovilla, Frankie Morello, Cappellini, Visionnaire, Iuter, solo per citarne alcune), non c’è un solo insegnante. Oltre al docente singolo della materia contribuiscono anche gli altri: chi per la presentazione grafica, chi per la contestualizzazione, chi per i materiali, chi per il colore…

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«Facendo convergere anche il lavoro degli insegnanti si ottimizza il tempo e si fa in modo che i ragazzi non lavorino su cose completamente staccate tra loro», spiega la Morozzi.

Qua si insegna non solo a realizzarlo, il progetto, ma anche a comunicarlo e a raccontarlo, preferibilmente utilizzando un linguaggio contemporaneo. Perché anche se interessante, se un’idea non riesci a “venderla” quell’idea è come se non l’avessi realizzata.
Un designer quindi deve saper fare… tutto. Dalla progettazione alla produzione alla presentazione.

«Il designer come demiurgo», dice Cristina Morozzi. «La cosiddetta “parcellizzazione”, e cioè figure differenti che si occupano di fasi e aspetti differenti, secondo me non funziona. Hanno ragione quei designer che vogliono controllare tutto: la pagina del catalogo, le didascalie, che vanno sul set dove si fanno le foto… E noi ai ragazzi cerchiamo di insegnare questo».

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Nel frattempo nella stanza accanto un piccolo gruppo di studenti, la maggior parte ragazze, disegna attorno a un tavolo pieno di cartamodelli mentre un insegnante parla con voce calma di derby, oxford, décolleté e con attenzione controlla con lo sguardo i progetti in corso d’opera dei ragazzi.

Si tratta di scarpe, ovviamente, e il docente è Luigi Nicu, che ha alle spalle un lunghissimo curriculum di collaborazioni con alcuni tra i più prestigiosi marchi del settore a livello internazionale.

I ragazzi stanno lavorando a un modello derby e Nicu spiega loro le problematiche, sottolinea gli errori, dà consigli.
Anche qui c’è da fare i conti con la realtà: «all’inizio lascio liberi i ragazzi di utilizzare la fantasia, che diventa anche “sfrenata”», dice Nicu. Che aggiunge: «poi però si lavora sull’effettiva fattibilità. Spiego perché una cosa non è realizzabile e come fare le correzioni del caso per renderla realizzabile».

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Lavorare sulla modellistica e imparare a gestire tutte le fasi di produzione è importantissimo, soprattutto per un prodotto come la scarpa, pieno di componenti che si vedono e soprattutto che non si vedono.
Studiare tutte ogni fase permette di creare quel linguaggio comune tra chi progetta e chi realizza, tra la scrivania del designer e il laboratorio dell’artigiano o la fabbrica.

Soprattutto tra le nuove “leve” di designer, secondo Nicu, questo tipo di esperienza spesso manca e quindi lui ci tiene particolarmente a formare gli studenti anche su quest’aspetto, per renderli dei futuri protagonisti di tutto il processo creativo che c’è dietro a un prodotto.

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A proposito di protagonismi: alla Marangoni Design School, nonostante le “firme” prestigiose tra le fila dei docenti, i riflettori sono indubbiamente puntati sui ragazzi.

Anche durante gli eventi e le fiere la scuola fa “un passettino indietro” per offrire la più ampia vetrina possibile agli studenti. Che sono anche i protagonisti di una serie di quadri disseminati per tutto il campus, opera del celebre fotografo di moda Aldo Fallai, che nei suoi ritratti è riuscito a tirar fuori dai ragazzi sguardi magnetici e pieni tanto di interrogativi quanto di prospettive.

Girando per la scuola non puoi evitare di imbatterti in quei quadri che ti fissano, silenziosi. Mi chiedo che effetto faccia ai ragazzi vedere dei loro coetanei appesi lì, negli occhi gli stessi turbinosi pensieri, gli stessi problemi, le stesse speranze…
E agli insegnanti? Agli insegnanti che effetto fa? Di memento della responsabilità che hanno di formare, di aiutarli a costruire, di non deludere le aspettative, di dar loro tutti gli strumenti per riuscire a cavarsela da soli, poi, una volta usciti da scuola?

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A un certo punto un fascio di luce mi risveglia dal flusso di pensieri. Su e giù per i piani del palazzo di via Cerva la luce ti raggiunge ovunque, diretta o spezzata dai vetri onnipresenti, che magicamente mandano i raggi del sole a sbattere contro pareti e pavimenti, contro i volti degli insegnanti e le mani degli studenti al lavoro in spazi progettati appositamente per loro: tutti gli arredi del campus sono di Cappellini, alcuni da catalogo, altri appositamente adattati al luogo e alla funzione, come ad esempio i grandi tavoli da lavoro.

L’impronta di Cappellini, alla Marangoni Design School, è evidente e profonda. E non solo per gli arredi ma anche per la collaborazione con l’azienda.
Per gli studenti le occasioni di lavorare a brief reali, che poi si concretizzeranno, sono molte.

Le aziende si presentano e spiegano cosa si aspettano dai ragazzi. E loro, nell’arco di circa due mesi e sotto la supervisione dei docenti, incontrano diverse volte coloro che hanno commissionato il progetto e sviluppano delle proposte, anche in base ai feedback dati durante le fasi intermedie.
Non ci sono marchi privilegiati rispetto ad altri; brand di serie A e di serie B. Anzi, quando glielo chiedo mi spiegano che le piccole aziende hanno il vantaggio di essere più disponibili a dare un supporto attivo agli studenti.

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Nella scuola però si lavora anche su sani, sognanti, esotici brief immaginari.
Quando entro nella classe di Interior Design, diretta da Marcella Bricchi, gli studenti stanno lavorando agli interni di una villa di Malibù.

Devono organizzare gli spazi, scegliere gli arredi, studiare le luci, contestualizzare il tutto in base all’ambiente esterno, trovare un equilibrio tra gli aspetti emozionali ed estetici e quelli funzionali, ma anche elaborare un “computo metrico”, cioè capire i costi dei materiali e degli interventi cercando di stare nel budget.

Il progetto è sì immaginario ma il computo è tutt’altro che campato per aria: i ragazzi sfogliano cataloghi reali, mandano vere mail alle aziende, telefonano e quando capiscono che l’irrinunciabile piastrella che avevano in mente di proporre all’ipotetico cliente (potevano scegliere tra due coppie di ricconi californiani: in una il marito è uno chef, in un’altra fa il chirurgo plastico) costa troppo s’affannano alla ricerca di un’alternativa.

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C’è da sgobbare alla Marangoni Design School. Ma poi lo vedi che gli studenti si divertono.
Quando la visita finisce e in treno, sulla via del ritorno, inizio a sbobinare quello che ho registrato durante la giornata, tra le tante sottolineo una frase detta da Nava quella mattina.

E dice: «il designer non è un chirurgo, non deve saper fare una cosa sempre alla stessa maniera, e una scuola che crea designer deve insegnar loro a trovare un proprio stile, una propria voce. Tramite il divertimento dare la possibilità allo studente di scoprire sé stesso».

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