Love Song: storia di un matrimonio (che in Italia non si può fare)

Federico Novaro è nato nel ’65 e vive a Torino.
Federico Novaro è un animatore culturale come ce ne sono pochi — come dimostra il suo sito Federiconovaro.eu, dove si parla di editoria, grafica, critica letteraria.
A Federico Novaro piacciono i maschi.

Federico Novaro non avrebbe mai pensato di sposarsi («Il matrimonio è il male», pensava fino a qualche tempo fa) però un giorno ha chiesto a Stefano, suo compagno da più di 10 anni, di sposarlo.
Federico e Stefano allora hanno fatto un video, uscito sui giornali di tutta Italia e non solo.
E Federico e Stefano sono stati poi chiamati da Fabio Fazio, che li ha voluti a Sanremo per aprire con “i fidanzati gay” l’edizione 2013.

Ora Federico ha scritto un libro, Love Song, edito da Isbn Edizioni.
Qualche giorno fa me ne ha mandata una copia e dopo averlo letto ed essermi commosso, incazzato, divertito, e aver invidiato la sua capacità di rendere semplici anche le cose più complesse, ho deciso di intervistarlo, affidando alla rapidità e al “tempo reale” di Facebook la discussione attorno al libro, che si è tenuta due giorni fa sulla nostra pagina facebook e che riporto qua.

* * *

È il tema del momento: “Matrimonio gay”.
Il selfie di Luxuria con Pascale e Berlusconi. La legge “alla tedesca”. Alfano e i prefetti. Marino e le firme. Gli ascoltatori de La zanzara che si premurano di chiamare in trasmissione per dire che “i matrimoni dei froci” non li vogliono. Le sentinelle in piedi e quelle (più nascoste e subdole) che stanno sedute sui divani e le poltrone, a casa, seminando odio in rete…
Tu scegli di iniziare il libro col botto, togliendo la terra da sotto i piedi al lettore con una scena familiarissima a chi, come me e come te, vive in coppia da anni: l’ansia.

Tutto il libro si costruisce passando dal dato biografico al dato teorico e viceversa, nel tentativo di precipitare tutti i gran discorsi che si fanno nel vissuto quotidiano di ciascuno. Non volevo affermare e protestare e fine. Volevo cercare di dire: «vedete? è di questo che si parla, della vita di ogni giorno, della vita delle singole persone». Volevo insomma provare a riportare un po’ tutto al concreto.

Perché iniziare dalla paura, da lui che non chiama, da “gli sarà successo un incidente?”?

Perché tutta la comunicazione sul matrimonio egualitario è fatta sull’ammore. Io volevo ricordare che l’amore nel matrimonio è un elemento “accessorio”, non è la sua base. La base è la morte, cioè il regolare i diritti e i doveri dei due contraenti nel presente ma anche e soprattutto oltre la loro scomparsa. L’eredità, la malattia, i rapporti con le famiglie d’origine. Se lui muore, chi sono io?

E infatti poi passi a descrivere le prime fasi del fidanzamento. Lui che viene a stare da te. E c’è la “scena del frigo”: una divertentissima lista di cibi scaduti e confezioni intonse. La “normalità” della convivenza. Identica per tutti, a prescindere da peni e vagine. Una normalità che continui a raccontare per tutto il libro. E secondo me uno dei suoi punti di forza.

Sì, quello era il tentativo. tutto il dibattito italiano sulle questioni dei diritti è terribilmente astratto e fatto sulla pelle delle persone; io ho provato a riportare tutto all’interno di quella pelle.

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Ma la “normalità” è un concetto che cambia, che si evolve. E che per fortuna è cambiato molto, negli anni.

Certo, c’è un passaggio nel libro in cui cerco di darne conto: quando ero piccolo io, “normale” era un insulto, ora è rivendicato come un diritto.

A proposito di parole.
Scrivi: «le parole non sono mai innocenti». Le parole sono importanti. Su questo concetto punti molto. E ripeti più volte di come non ci si renda davvero conto di quel che si dice né si ascolti davvero quel che dicono gli altri.
Mi pare che questo sia uno dei problemi — un gigantesco problema — della discussione attuale attorno al tema del matrimonio egualitario.

Sì, è vero, che ci tengo molto. In Italia esiste molto chiasso “intorno” all’omosessualità, ma di fatto le persone omosessuali non hanno voce, non sono rappresentate, non esistono se non come eccezioni. Siamo tutti abitati da un linguaggio che ci agisce e per forza di cose — culturalmente — è un linguaggio omofobo. Io credo che si debba ripartire dalle parole, capire perché le usiamo, da dove vengano e credo che così scopriremmo noi tutti di dire, in realtà, cose che non pensiamo.

Credo di non aver mai letto, su un tema come questo, qualcosa di altrettanto onesto. È un tema, dopotutto, in cui si cade facilmente nell’estremismo, nell’appiattimento su una posizione bidimensionale. Tu invece sei stato capace si mostrare tutte le sfumature, i dubbi, di smascherare le certezze da ogni parte. Tutti — e intendo proprio tutti — dovrebbero leggere Love Song. Perché è innanzitutto un esempio di grandissima onestà intellettuale. Un dibattito del genere, però, soprattutto su certi “supporti” (penso alla tv ma anche ai giornali e in parte al web) necessita di una semplificazione. Come se ne viene a capo?

Oh accidenti che complimentoni! Grazie, mi fai felice. Riguardo alla semplificazione necessaria non saprei. Io credo sia intanto importante che laddove i tempi e i modi non sono quelli della comunicazione tv si possa iniziare a fare un lavoro sulle parole, complesso, difficile, anche divertente, poi a ridiscendere qualche beneficio arriverà anche laddove è impossibile.

una delle tante vignette di Altan, col famoso ombrello
una delle tante vignette di Altan, col famoso ombrello

E qua mi vengono in mente le vignette di Altan.
A un certo punto ti lanci in una bella analisi semiologica del famoso ombrello e concludi dicendo che le sue vignette, più di molti discorsi, hanno veicolato un’idea sessista, maschilista, omofoba, misogina, nell’inconsapevole plauso generale.
Poche pagine dopo passi alla Bindi.
La “superiorità morale” della sinistra…

Ahahah sì, devo dire che mi disturba di più la spocchia di sinistra di chi crede d’essere progressista e dice d’avere tanti amici gay senza essersi soffermato un secondo su quello che sta dicendo che la destra rozza e ignorante alla Gasparri.
L’esempio di Altan era molto difficile da decostruire in un contesto come il mio libro, ch’è fatto di sprazzi, di tornanti, di riprese continue sempre interrotte, perché rappresenta una tale sovrapposizione di senso — inconsapevole — che sarebbe stato necessario un libro intero. Ma credo un pochino — grazie molto a Linda Fava, la fantastica editor che il destino m’ha assegnato — di essere riuscito a sottolineare qualcosa.
«Te la metto nel culo» lo diciamo tutti. Bene sarebbe fermarsi un secondo per capire cosa diciamo davvero.

Visto che parli della struttura “a tornanti” del libro, una struttura fatta di brevi capitoli, i cui titoli spesso si ripetono, con cambi di scena e di registro, salti temporali — c’è la storia d’amore, la storia famigliare, c’è l’eccezionalità dell’evento Sanremo, c’è la lucida riflessione storica e quella sociale e di diritto… Sembra un flusso di pensieri ma organizzato con una razionalità estrema. Come mai questa scelta?

Mi sono posto una domanda all’inizio: a chi voglio parlare? A chi già crede di sapere o a chi ha voglia di condividere dei dubbi? Ho deciso che volevo parlare — e dare voce, la mia, ma che fosse una voce in cui fosse possibile riconoscersi — a chi è allontanato dal discorso pubblico sull’omosessualità, per mille ragioni.
E volevo ingaggiare una lotta con chi mi avrebbe letto: mi riconosco, non mi riconosco, sono io, sei tu, noi, voi, è la mia vita, è la tua, no! si!
Per fare questo ho provato a mettere costantemente in scena qualcosa che si spezzasse sempre ogni qualvolta l’attenzione — l’abitudine ai propri pensieri — potesse scemare.

E ci sei riuscito!
Io sono un maschio eterosessuale che sta da 12 anni con la stessa compagna. E mi pareva di sentire il mio, di pensiero, nelle tue parole.
Come ti ho scritto in privato un paio di giorni fa mentre leggevo il libro, sei pure riuscito a mettermi in crisi con un interrogativo grosso così. Sempre convintamente d’accordo con il matrimonio egualitario, non lo ero altrettanto riguardo all’adozione da parte di coppie dello stesso sesso. E ora, dopo la lettura, il dubbio è diventato gigantesco: forse non sono libertario come credevo di essere?

Nessuno di noi è libertario tanto quanto crede di essere. La consuetudine, le idee correnti, la pigrizia, agiscono in noi costantemente. Sappiamo pochissimo di quello che davvero crediamo, a mio avviso. Essere libertari è un lavoro costante, che richiede applicazione, impegno, fatica. Nessuno di noi ha così voglia. Siamo un pochino libertari, ma questo è già molto.

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Veri libertari sono forse i bambini.
A un certo punto scrivi: «Ma che cagata, mi disse l’allora ottenne figlio della nostra amica Camilla quando cercammo di spiegargli perché non potevamo sposarci qui. Solo chi conosce l’odio in sé è in grado di comprenderlo».

Ahahaha. Beh anche loro se ben istruiti in quanto a ferocia non scherzano. Ma è vero che è difficile che s’inventino degli odi illogici, come invece gli adulti fanno in gran copia.

A un certo punto, prima ancora di decidere di sposarvi, tu e Stefano avete affrontato il percorso per diventare genitori affidatari. Racconti di come pur non arrivando alcun rifiuto furono messi tanti bastoni tra le ruote in modo che foste voi a finire per rifiutarvi.
L’ipocrisia del buonismo?

No, peggio, l’irresponsabilità assunta a sistema. Credo che le persone che avrebbero dovuto decidere sulla nostra idoneità si siano rese conto di essere nell’impossibilità politica di prendere una decisione. Se dicevano sì, avrebbero avuto una sollevazione di certuni, avessero detto no, di cert’altri. Che fare? Come si fa in Italia, insabbiando. Il merito della questione? Se cioè noi fossimo o meno dei potenziali buoni genitori affidatari? Beh il merito non interessa a nessuno.
Una precisazione: forse nel libro mi sono spiegato male. No, noi non ci siamo mai rifiutati, anzi, abbiamo detto sì ad oltranza, poiché credevamo di potere essere utili. È da parte dell’amministrazione che non è mai arrivata una risposta definitiva: no/sì.

Una delle (tantissime) frasi che mi sono appuntato è una definizione di libertà: «la libertà viene sempre vista da chi la odia come un atto riprovevole».
Ma — come poi pure scrivi — che c’entra la libertà con il matrimonio?

Cosa c’entri la libertà col matrimonio è un po’ uno dei fili del libro. È un po’ una falsa figura. Sai, quelle frasi tipo la tomba dell’amore…
Quindi molti dicono, ma perché diavolo volete sposarvi, VOI gay, perché rinunciare alla libertà che avete?
Nel libro provo a raccontare cosa nasconda un’obiezione del genere, ma quello che importa qui ora è: chi ha la libertà di sposarsi? Chi non ce l’ha? È tutto qui. Io non posso sposare la persona che amo, tu sì.

E l’amore? L’amore c’entra col matrimonio?

L’amore c’entra col matrimonio? Sì, no, non importa. Per me ora il ripetere costantemente — come è stato anche fatto a Roma in occasione delle trascrizioni — che ci si deve poter sposare perché ci si ama e tutto l’amore è uguale, non è altro che un infingimento. No. È una questione di legge e di diritto. Io voglio vivere in un paese che non discrimina, che non si basa su un istituto giuridico discriminatorio. La legge non deve certo andare a “sfrucugliare” nei sentimenti delle persone.

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Una delle domande che ti poni è: come fa un eterosessuale, che pure è per il matrimonio egualitario, a non imbarazzarsi, a non vergognarsi per questo “diritto monco”?
Un silenzio che paragoni al “salire senza imbarazzo su un bus riservato a quelli che hanno la pelle del tuo colore”. Ma poi concludi dicendo che in effetti ci saliremmo tutti, sul quel bus.

Tutti noi costantemente viviamo sul crinale di privilegi, legittimi, illegali, socialmente accettabili, stigmatizzati, ci barcameniamo fra la nostra coscienza e la nostra cecità. Tutti noi pensiamo che la libertà, quella che abbiamo e che altri non hanno, sia un problema per loro e non per noi.

Una delle cose che mi ha più “illuminato”, nel libro, è quando parli della campagna sul matrimonio egualitario come di una campagna fondamentalmente conservatrice, visto che sostiene valori come famiglia, solidità, rispettabilità, decoro, ordine…
Quindi siamo di fronte a un paradosso grosso come una casa, laddove i conservatori cercano di sabotare e di sputare fango addosso a un’istanza che fondamentalmente si basa sui loro valori.

Sì è un paradosso divertente. anche un po’ agghiacciante. Facendosi un giro sui Tumblr, cercando gay couple o gay marriage t’assale un trionfo di immagini che già non se ne poteva più di vederle impersonate dagli etero, vederle ora in versione gay è mooolto interessante, e al contempo sinistro. La cecità è doppia, sia da parte conservatrice, che non sa vedere che le proprie istanze stanno trionfando, sia da parte progressista che, spesso non sapendo di cosa sta parlando, vi si adagia in modo acritico.
Detto questo è vero però che questo dilagare, che a miei occhi è illuminante vedere nei termini di una occupazione, è dirompente e ironicamente rivoluzionario. A chiosa di questo invito anche a cercare, sempre sui Tumblr, Disney Gay. Oltre a moltissimo porno, molto divertente, si ha l’idea di cosa voglia dire occupare un immaginario che si credeva altrui.

Che ne pensi, Federico, delle “Sentinelle in piedi”?
Qualche giorno fa Costantino della Gherardesca ha scritto su Facebook che hanno fatto una campagna di comunicazione molto sofisticata ed attuale. Dice anche: «e questa battaglia l’hanno vinta. A mani basse. Quindi direi che è il momento di voltare pagina ed abbandonare i Mr. Gay e i carri con le piume e le feste in discoteca…perché c’è chi sta spendendo i soldi con un minimo di cervello».

A mio vedere le sentinelle in piedi, nel loro sinistro apparire, sono gli araldi della loro sconfitta. Dicono cose — nella loro rozzezza, anche se sapientemente comunicate — che dieci, vent’anni fa erano moneta corrrente.
«I gay non si devono sposare! I gay sono il peccato! Bleahhhh!». Ma dieci, vent’anni fa tutti lo dicevano. Ora però per dirlo bisogna stare in piedi — non capisco perché non in ginocchio sui ceci, neanche i cattolici sono più quelli di una volta — in mezzo alle piazze a debita distanza, per prendere più posto.
Salute sentinelle! Io saluto in voi l’alba della nostra vittoria.

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Spero davvero tu abbia ragione. Ma nel frattempo possono comunque “far danni”.
In uno dei passaggi secondo me più commoventi, riferendoti al rapporto con genitori cattivi che rifiutano un figlio che non corrisponde al loro sogno, dici che non si è obbligati a perdonare, a essere generosi con chi ti ha fatto del male.
«Non si deve essere bravi figli di cattivi genitori», scrivi. «Ci si può anche allontanare».
E concludi con (e qua mi sono commosso): «È che bisogna essere felici, sempre, pervicacemente».
Ché poi vale pure per le mille varianti di “figlio lontano dal figlio dei sogni” che possono verificarsi anche se sei eterosessuale. Anche qua sta l’universalità del messaggio del libro.

Credo che dovrebbe essere un dovere di noi tutti cercare di essere felici nella massima misura possibile. E, sì, credo che una delle cose più terribili di quando un genitore non ci riconosce nella nostra identità, ma invece solo come difetto rispetto ai loro desideri — che è già una delle cose più tremende che ci possa capitare — una delle cose più terribili, dicevo, è sottomettersi al ricatto che vuole che si debba non solo non chiedere un risarcimento per il dolore che ci è stato fatto subire, ma anche perdonare e comprendere.
Una delle facce più tremende della connessione fra l’esaltazione del coming-out e i tratti conservatori della campagna pro-matimonio egualitario è una glorificazione aprioristica della famiglia, dimenticandosi in un instante un secolo di letteratura che ci ha raccontato come le famiglie possano essere formidabili fabbriche del dolore.
Non abbiamo alcun obbligo verso chi ci fa del male, questo credo dobbiamo sempre ricordarcelo.

Ti dico la verità: mi piacerebbe che qualche prof. coraggiosa/o portasse in classe Love Song, lo facesse leggere.
Anche se immagino già le polemiche che potrebbero uscirne… Avresti un altra prima pagina su Repubblica, dopo Sanremo.

Mah. Le cose cambiano hanno fatto davvero grandi cose con le scuole. A me piacerebbe moltissimo.
Certo Repubblica è in grado di distruggere ogni gesto discreto e intelligente, se vuole.

E Sanremo? Pure quello è un palcoscenico capace di triturare, snaturare, mistificare. Eppure racconti di come sia stato un momento da una parte allucinante ma dall’altra importantissimo, soprattutto per la risposta che tu e Stefano avete avuto da tantissima gente, da genitori che dopo quella sera lì hanno fatto il primo passo per cercare di capire i loro figli a ragazzi e ragazze che hanno trovato il coraggio di raccontarsi.

Sì, Sanremo (trascurando, appunto, il titolo che Repubblica sparò in prima pagina il giorno prima: “Bacio gay sul palco di Sanremo”, o qualcosa di simile, che orientò tutta l’attesa sulla questione se ci saremmo o meno baciati) è stato una cosa che io tutt’ora non so davvero decifrare. Capimmo effettivamente cosa avevamo fatto al ritorno da New York, una settimana dopo — settimana durante la quale eravamo entrati in “silenzio stampa” per proteggere il “nostro” matrimonio — trovando centinaia e centinaia di messaggi (soprattutto su Facebook) di persone che ci ringraziavano.
Passammo due giorni a rispondere. Non erano sfoghi o racconti di dolore o di traversie: erano dei grazie. Le cose che più ritornavano erano: che avevano potuto dire «vedi! Io sono come loro! Il mio amore è come il loro!» e quelle persone che erano come loro erano sul PALCO DELL’ARISTON!
L’altra cosa era il racconto di una contemporaneità. Ci dicevano — ma in tanti, tantissimi — che avevano visto Sanremo e che contemporaneamente sapevano che lo stavano guardando i loro genitori. Si era creato, in modo così flagrante da quasi non poter avere un autore, un luogo comune, uno spazio condiviso, laddove non c’era.

E gli insulti? Gli haters (gonna hate…) che hanno commentato sul video che tu e Stefano avete pubblicato su YouTube ottenendo migliaia e migliaia di visualizzazioni, come li avete gestiti? Immagino serva una bella corazza.

Bah, gli insulti. Ti dirò, non ce n’è importato niente. Quando ho letto la domanda per un momento mi sono detto: “ma che insulti?”
Poi sì, ricordo che su YouTube ce ne furono. Non saprei, era talmente più forte l’onda dell’approvazione che gli insulti forse furono rubricati a rumore di fondo. Sarà anche una mia attitudine personale — come di mio marito — ma gli insulti a me dicono molto di più su chi li esprime che su di me, su di me non dicono niente, e chi li esprime… sono forse interessanti?

Approvo al 100%.
Arrivando verso la conclusione dell’intervista mi chiedo: ma Love Song, alla fine, cos’è?
Non è un pamphlet, né un saggio. Non è un instant book né un’autobiografia.
La scrittura: semplice ma non semplicistica. Forte. Dritta al punto, senza fronzoli. In alcuni passaggi, soprattutto quelli più personali, mi ha ricordato l’Hemingway di Addio alle armi.

Ahahaha accidenti, dovrò leggerlo allora. Aspetta che ti cerco cosa ne ha scritto Gianluca Didino, qualche giorno fa:

Sono felice di dire che Love Song di Federico Novaro non è solo il libro di un amico e un libro importante oggi in Italia, ma è anche un libro bellissimo: ha il mordente di un pamphlet settecentesco, è intimo come un memoir e trasparente come autofiction, documentato come un libro di storia e scritto con chiarezza, eleganza e poesia. Consiglio a tutti di leggerlo, soprattutto se date per scontato che sarete d’accordo al 100% (perché vi farà cambiare idea anche su questo: è un libro così personale che se siete d’accordo al 100% siete degli ipocriti).

Ma soprattutto un’altra cosa che mi è stata scritta:

Certe pagine me le terrei sempre in tasca, così nei momenti in cui non riesco a spiegarmi potrei dire tieni, leggi, qui c’è scritto quello che penso.

E poi ancora un’altra, che mi ha scritto Giuliana Giulietti:

Stamani mi sono comprata Love song e dopo io e mio marito Sergio siamo andati in collina, alla Valle Benedetta a goderci questa meravigliosa giornata — passeggiata nel bosco e pranzo all’aperto nella trattoria del paese sotto una pergola di vite americana. Al tavolo accanto al nostro un signore affabile e gentile ci ha rivolto la parola e così abbiamo iniziato una lunga conversazione. Abbiamo parlato di tante cose: il cibo il mare l’età l’amore. Poi guardando Love song appoggiato sul tavolo mi ha chiesto: «che cosa legge?». Gli ho detto che cosa leggevo. «Io ho un figlio omosessuale», ha detto lui, «è la luce dei miei occhi. Lo adoro. Abita e lavora a Torino, vive con il suo compagno in una bella casa, sono molto innamorati». Poi ha fotografato la copertina di Love song, che vuole leggere. Delle unioni civili ha detto che sì, servono, ma sono polvere negli occhi. Ma quando arriverà una legge che consentirà al figlio e al suo innamorato di sposarsi lui e sua moglie daranno in loro onore una grande grandissima festa. «Non vedo l’ora», ha detto.

Ecco, io ho cercato di fare qualcosa che fosse una mescola di tante cose, una canzone. E, se posso finire un po’ patetico, una canzone che parlasse d’amore.

Dopo la prima edizione dovreste farne una seconda con le mail e i messaggi dei lettori!

Giriamo l’ipotesi a Isbn Edizioni.
Intanto io li raccoglierò su FN.

Concludo ringraziando con tutto il cuore Federico Novaro e saluto suo marito Stefano, che non conosco (ma forse un pezzettino piccino-picciò sì, grazie a Love Song, che oltre a tutto ciò che abbiamo detto finora è anche una grande, profonda, mai scontata dichiarazione d’amore).

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