Design sul filo della tradizione

In un’epoca in cui quasi ogni aspetto della vita quotidiana viene digitalizzato e passa attraverso uno schermo, tascabile o meno che sia, inevitabilmente si finisce per reazione con l’attaccarsi, pieni di un entusiasmo venato di nostalgia, a quelle pratiche e a quei mestieri dove è la materia il centro tolemaico dell’azione, del pensiero e del discorso.

L’artigianato o meglio l’artigianalità, il saper fare, non è forse mai stato tanto discusso, pubblicizzato, raccontato e analizzato come oggi. Ma in mezzo a nuvole di parole, video ed immagini che viaggiano tra un server e l’altro, siamo sicuri di saper dare una definizione corretta e condivisa di artigianato? C’è un solo artigianato o ce ne sono molti? Un artigiano e un maker—termine in gran voga, sopratutto in rete, ed usato spesso a sproposito, esibito come una medaglia da appuntare al petto (magari quello impalpabile di un avatar) a mo’ di certificazione di qualità—sono la stessa cosa?

A questi e ad altri quesiti—assolutamente centrali per chi lavora nel campo del design, della moda, ma anche per chi come me si trova poi a scriverne e a raccontare le storie—prova a rispondere Federica Vacca, ricercatrice e docente di Design della Moda e degli Interni al Politecnico di Milano, con un indispensabile libro dal titolo Design sul filo della tradizione edito da Pitagora Editrice Bologna ed uscito da poche settimane.
Frutto di una lunga ricerca sia bibliografica che sul campo, il volume racconta ciò che è accaduto in Italia dopo i fenomeni di globalizzazione e delocalizzazione produttiva avvenuti negli ultimi anni ed analizza le dinamiche, le diversità e le strategie di vecchie e nuove realtà artigianali, presentando svariati case studies.
Ciò che salta immediatamente all’occhio del lettore è che non esiste un solo tipo di artigiano: quella di artigianato è una definizione multipla, piena di sfumature e in evoluzione continua. Soprattutto rispetto all’altro termine da cui deriva, e col quale è in corso da secoli una battaglia senza vincitori né vinti: l’arte.

Nell’antichità infatti—spiega l’autrice—arte ed artigianato erano praticamente la stessa cosa visto che all’arte si chiedeva di imitare la realtà e dovevano essere la tecnica ed il realismo, non lo stile o la “firma” dell’artista né la sua visione, gli aspetti centrali di un’opera. Fino al Medioevo un ricamo ben eseguito veniva apprezzato maggiormente rispetto ad un quadro.
Fu nel Rinascimento che le carte in tavola si ribaltarono e che le strade tra arte—frutto del genio—ed artigianato—frutto della tecnica—si separarono. Fino all’arrivo del Bauhaus, che riallineò le due discipline dando loro pari dignità, si è continuato a parlare di artigianato come di un’arte puramente manuale, di serie B, e dell’artigiano addirittura come di un semplice operaio che esegue (specialmente dopo la Rivoluzione Industriale) vs. architetto o designer che progetta, mentre negli anni ’50, quelli del Made in Italy e del Grande Design Italiano, l’artigiano veniva visto più che altro come un prototipista, il trait d’union tra il progettista e l’industria.

Dunque, citando il titolo di una celebre raccolta di racconti di Carver, di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di artigianato?
Nel libro si parla di cinque profili-tipo, ciascuno con le sue caratteristiche: c’è l’artista-artigiano, che produce il pezzo unico ma la cui attività è orientata principalmente all’espressione della propria visione del mondo, più che alla vendita; c’è l’artigiano che opera nella tradizione, che riproduce prodotti del passato, con tecniche del passato, puntando sul recupero del know-how e del folklore ma senza innovazione; l’artigiano che opera su progetto, che può collaborare con designers, architetti e artisti, studia le tecniche tradizionali ma lavora puntando sull’innovazione; l’artigiano che opera per l’industria, che coincide spesso con il prototipista, colui che dà valore manuale ed artistico a (o per) un’opera in serie; c’è infine l’artigiano che opera per una nuova concezione della piccola impresa, il cosiddetto maker, che si basa spesso sull’autoproduzione, su una distribuzione coadiuvata dalle nuove tecnologie e si inserisce in una rete sociale di realtà affini, quasi tutte urbane.

È nel momento in cui la sapienza artigianale s’intreccia col progetto, in cui l’innovazione sposa la tradizione—questa la tesi di Federica Vacca— che sta il “segreto del successo”. Quando l’artigiano recupera ma allo stesso tempo guarda avanti, riuscendo anche a raccontare al consumatore il valore dell’oggetto singolare—così lo chiama l’autrice, che sta anche organizzando una mostra con lo stesso nome—che è dato dalla sua relazione col contesto, col territorio e col consumatore stesso, evocando ed acquistando valore emozionale, è allora che l’artigianalità diventa vera opportunità per il mercato.

Per i nuovi artigiani un libro come Design sul filo della tradizione può diventare dunque una sorta di manuale strategico per (ri)pensare la propria attività, un punto di riferimento e riflessione al pari di una “bibbia” come Futuro Artigiano del prof. Stefano Micelli (da seguire assolutamente su twitter: @stefanomicelli.

Tra l’altro, visto che la vita non opera mai per caso, appena qualche settimana dopo aver avuto l’onore di partecipare in qualità di relatore alla presentazione del saggio di Federica Vacca (in una location che più azzeccata non si poteva: Nonostantemarras, lo splendido spazio milanese di Antonio Marras, che è anche uno degli esempi di eccellenza studiati dall’autrice), mi è arrivato un invito per una conferenza/laboratorio su La tradizione del fare, protagonista proprio Stefano Micelli, che ho seguito con entusiasmo e preparato come uno studente che vuole prendere 30 e lode agli esami.

Quando alla fine Micelli, retoricamente, si è domandato perché in Italia siamo così titubanti nell’usare la parola artigiano e a considerare l’artigianato un driver per l’economia, le risposte le sapevo già. Ed erano le stesse a cui ero arrivato leggendo Design sul filo della tradizione.
L’artigianato, purtroppo, in Italia è vittima di tre grossi equivoci: che l’impresa artigianale debba per forza coincidere con una piccola bottega; che l’artigiano sia custode della tradizione e rifugga l’innovazione; che ci sia un contrasto con l’industria. Solo una volta superati questi equivoci si potrà iniziare a scommettere sulla vera forza del nostro Paese. Checché ne dicano i fanatici delle start-up digitali, è lì dove progetto, manualità, recupero e visione si incontrano che bisogna investire se vogliamo affacciarci al futuro.

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