Quando la famiglia Barltrop, in quel di Northampton, in Inghilterra, si mise a fabbricare scarpe, sul trono del Regno Unito sedeva ancora Giorgio IV, la futura Regina Vittoria non aveva che otto anni, le automobili non erano ancora state inventate e il Big Ben non era ancora stato neppure pensato. Qualche anno dopo, su idea del figlio del fondatore Joseph Barltrop, quella piccola impresa famigliare cambiò il nome in Tricker’s e negli anni a venire fece la storia della scarpa e dello stile british, utilizzando i materiali più pregiati e lavorando, oggi come allora, con le stesse tecniche artigianali.
Questo è ciò che viene definito heritage: il retaggio, le radici. Si parla tanto di heritage, ultimamente. Nel settore moda è diventato una sorta di imperativo comunicarlo (attraverso quello che è un altro imperativo degli strateghi del marketing, lo storytelling), tanto che i poveri uffici stampa si dannano l’anima per ingegnarsi ad inventarne uno pure quando non esiste.
Quindi avere insieme un marchio come Tricker’s ed un altro pezzo di storia — stavolta del denim — come Roy Roger’s è “grasso che cola”.
Roy Roger’s, come ho raccontato non molto tempo fa, è il primo produttore italiano di blue jeans. Fin dal 1949, quando il nostro Paese si stava appena riprendendo dalla guerra e la maggior parte degli italiani non sapeva ancora… l’italiano (quello contribuì a diffonderlo la tv, quando ancora faceva cultura).
Veniamo a noi: che potevano fare, insieme, Roy Roger’s e Tricker’s se non una capsule collection di scarpe in edizione limitata, presentate ufficialmente durante l’ultimo Pitti, che uniscono pelle e denim per due stringate ed uno scarponcino.
Queste macchine del tempo da portare ai piedi le trovi in vendita solo nel negozio Roy Roger’s di Firenze.