Sabato scorso, in pieno Festival del libro d’arte, mi trovo in Sala Borsa con mia figlia, ultima sosta delle nostre passeggiate mattutine per le vie del centro di Bologna – fortunatamente chiuso al traffico nei fine settimana, per la gioia di chi ama camminare o andare in bici e tra le proteste piuttosto ottuse di chi fa fatica ad immaginare una città che si allarghi oltre al palmo del proprio naso e preferisce (far finta di) vederla attraverso il parabrezza o dalla sella di un fastidioso motorino.
Dopo le solite tappe del nostro tour – statua di Garibaldi, canticchiando fu ferito ad una gamba… (papà, perché fu ferito alla gamba?), poi in una quasi deserta zona universitaria per una colazione tra studenti erasmus ed hipster in una caffetteria vagamente ispirata a Starbucks (papà, perché quei ragazzi hanno il computer al bar?), pausa giro-tondo nella “piazza con le palle” (Santo Stefano, dove… papà, perché la signora non raccoglie la cacca del cane?), conferma settimanale che la magia del quadriportico con volte a crociera di Palazzo Re Enzo funzioni ancora (papà, perché se io parlo in un angolino tu mi senti nell’altro angolino?) e infine un capatina nell’area bambini della Biblioteca di Sala Borsa a sfogliare libri e ridere davanti agli specchi deformanti – arriviamo nella piazzetta interna dove, sopra ai pannelli trasparenti sui quali quand’era più piccolina Sveva non osava camminare, si stava tenendo una mostra con opere di Enzo Minarelli: un librone di un metro per settanta pieno di collage retro-pop ed una serie di teche con dentro dei ready-made realizzati con vecchie etichette dei VHS, nastri per macchine da scrivere, carta carbone e trasferelli.

I trasferelli! Da quanti anni non do furiosi colpi di matita su un foglio Letraset per riempire interi quaderni a quadretti dalle copertine anni ’80 – paesaggi esotici virati in colori acidi o geometrie fluo o stomachevoli orge rosa di Mio Mini Pony – di inutili serie di C I A O – S I M.O NE fino ad esaurimento delle lettere da attaccare (storte)?
Vent’anni almeno. Vent’anni senza caramelle da scartare con impazienza per scoprire quale mostro in forma di trasferello il caso aveva deciso di regalarmi.
Vent’anni senza album pieni di scene panoramiche di guerra da animare con guerrieri trasferibili spesso feriti in battaglia (dalla sbadataggine del sottoscritto, che si dimenticava di controllare che tutta la figura si fosse trasferita su foglio e li lasciava non di rado sul campo di battaglia senza gambe o braccia, creando raccolte da brivido, piene di amputati).
Si può vivere così? Senza niente da matitare furiosamente nei lunghi pomeriggi d’estate?
Penso a mia figlia e quanto sia già a suo agio con i dispositivi touch, con l’immaterialità della creazione, senza cancellature, senza inchiostro che ti macchia le dita, senza le pellicine che ti lascia la colla e l’odore di ferro – che ti ricorda il sangue – di un paio di vecchie forbici.

Scatto una foto e la pubblico su Instagram, come memento per il Simone-papà che dovrà ricordarsi di girare le cartolerie e cercare set di trasferelli da far provare alla sua già troppo tecnologica pargola.
In pochi secondi la foto supera i 10 likes (non sono uno che vive su Instagram e non uso le tag né mi fotografo i piedi, l’outfit, i cupcakes che mangio, quindi per me una foto con trenta likes è un risultato più che dignitoso) e qualcuno inizia a commentare.
Alan Chies scrive che a Parigi c’è un negozio pazzesco pieno di carte pregiate, colori di ogni tipo. E hanno pure i trasferelli!
Alexandros di Khaa Pins scrive che ne ha trovati alcuni a Ferrara e lui se ne è comprati un po’, pagandoli carissimi, per fare una serie di spille.
Sebastiano tre mesi fa ha preso l’intera collezione Letraset (pure i pantone, dice, pure i glifi, quelli per l’architettura, tutti!) da una cartoleria di Roma che li stava buttando.
Qualcuno su Facebook mi contatta in privato per chiedermi dove trovarli. Un mio amico di Bologna via sms…
Inizio la mia ricerca. Tra cartolerie e negozi di articoli da ufficio nessuno sembra averli. «Non li fanno più» dice qualcuno. «Ora, con i plotter e i computer, a che servono?» dice un altro. «Ma a che ti servono?» mi chiedono un po’ tutti. «Voglio farli conoscere a mia figlia, che non li ha mai visti ma sa già usare l’iPad» rispondo. Quelli che hanno più o meno la mia età sorridono sotto a sguardi complici.
Mi consigliano di provare in zona Belle Arti. Vado. E mi segno di comprare pure una vagonata di carta carbone.





