Un video illustra il Ryukyu Bingata, un complesso processo di tintura tessile giapponese

Nel ‘300 l’odierna prefettura di Okinawa, la più meridionale del Giappone, faceva parte del Regno delle Ryukyu. Era un reame indipendente, con le sue leggi e la sua cultura, e intratteneva stretti rapporti commerciali non soltanto con il resto dell’arcipelago giapponese ma anche — per via della sua posizione geografica — con la Cina, la Corea, e il resto del Sud-est asiatico.
Fu in quel periodo che nel regno iniziò a diffondersi una speciale tecnica di tintura dei tessuti, oggi conosciuta come Ryukyu Bingata, caratterizzata da pattern con motivi naturalistici tropicali (a richiamare la flora e la fauna locali) dai colori accesi e vibranti, capaci come pochi altri di resistere al tempo e ai lavaggi.

Non è chiaro dove e come le artigiane e gli artigiani di Ryukyu appresero tale metodo: alcune teorie propendono per un’origine cinese, altre sostengono fosse frutto degli scambi commerciali con l’India, con Giava, o con l’Indonesia. Più probabilmente, fu sviluppato unendo diversi saperi, importati sia da fuori che dal resto del Giappone. Comunque sia andata, questa tecnica raggiunse livelli altissimi proprio nelle isole Ryukyu, diventando una tradizione che è tuttora legata a quei territori, dove il Ryukyu Bingata si pratica ancora, con modalità che nel corso dei secoli non sono mai cambiate, tramandandosi di generazione in generazione all’interno di poche famiglie (nell’antichità erano solo tre — i Takushi, i Chinen e gli Shiroma — quelle alle quali era permesso di lavorare in questo campo, e i loro prodotti erano riservati alla nobiltà), insieme alle ricette, ai motivi decorativi e ai pigmenti minerali per produrre i colori.

A causa della seconda guerra mondiale, quest’arte rischiò di scomparire. Durante la sanguinosa battaglia di Okinawa, che vide fronteggiarsi le forze alleate e quelle dell’impero giapponese, provocando oltre centomila morti, gran parte delle botteghe specializzate nel Ryukyu Bingata andarono distrutte insieme a quasi tutti gli stencil per i pattern e agli attrezzi del mestiere.
A “resuscitare” questa antica tecnica fu un’operazione collettiva di recupero, in tutto il paese, di tessuti e pattern prodotti con questo metodo — operazione guidata da un artista e artigiano, Eiki Shiroma, discendente (quattordicesima generazione) da una delle tre famiglie originarie.

Anche oggi sono pochissimi i laboratori in cui si porta avanti la tradizione e la maggior parte di essi ha sede a Naha, il capoluogo dell’isola di Okinawa e dell’omonima prefettura. È qui che è stato girato un bel documentario prodotto dal negozio e galleria d’arte Aoyama Square, di base a Tokyo, che da tempo promuove il meglio dell’artigianato giapponese.
Nel filmato — che vede tra i protagonisti una delle più grandi artiste del Ryukyu Bingata, Sachiko Yafuso, che tra l’altro appare anche in un documentario italiano, Isole gemelle, che unisce Sardegna e Okinawa sul “filo” della tessitura e della storia — sono mostrate tutte le complesse fasi di questo metodo, dall’incisione dello stencil alla stampa su tessuto, fino al fissaggio dei colori con il vapore e al lavaggio finale.
I tessuti prodotti — davvero straordinari — possono poi essere usati per i kimono ma anche per altri capi, comprese camicie molto simili a quelle hawaiane.

Un fotogramma del video
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