I diorami di Simona Cozzupoli, tra wunderkammer, rebus, carte da gioco, collage e magia

Nel suo saggio L’algebra e il fuoco. Saggi sulla scrittura, l’autore statunitense John Barth, uno dei padri della corrente letteraria postmoderna, dedica un capitolo ai granchi, usandoli come analogia per trattare di arte e letteratura. Barth parla nello specifico del granchio blu, tipico della baia di Chesapeake, il luogo in cui è nato. Lì è pieno di ristoranti di pesce, e in quei ristoranti capita spesso di trovare esposti alla parete dei granchi imbalsamati, che hanno diverse funzioni: arredare il locale, stimolare l’appetito e mostrare che quello è l’ingrediente tipico che si può trovare in quel posto. Il granchio imbalsamato, Barth lo paragona al documento storico — prima di essere appeso al muro era effettivamente una creatura viva.
Il secondo granchio che lo scrittore va ad analizzare non è un animale vero: è solo un disegno, più precisamente un’infografica, che potrebbe benissimo apparire sulle pagine di una rivista come National Geographic e che del crostaceo mostra con precisione l’anatomia. Quel granchio fittizio, che non si riferisce a un granchio specifico ma alla sua intera specie, lo equipara a un saggio.
C’è poi un terzo granchio: anche questo potrebbe trovar spazio su una rivista scientifica, ed è stato magistralmente disegnato a china, con molto realismo, da un illustratore. Che granchio è questo? Non è il granchio vero e proprio, come il primo, ma non ha nemmeno un carattere strettamente scientifico-divulgativo. Mostra l’animale, sì, ma in effetti «riguarda anche la penna e l’inchiostro, e le ombreggiature e la prospettiva e così via» scrive Barth. «In altre parole, in parte riguarda l’arte del disegnare; e noi lo ammiriamo, se lo ammiriamo, proprio perché l’artista è in grado di evocare la realtà dei granchi blu con del materiale assolutamente distante da quella realtà: penna, inchiostro nero e carta bianca». È la fiction: in letteratura potrebbe essere un buon romanzo o buon racconto.
Il quarto granchio — associato alla paccottiglia letteraria — assume invece le sembianze di un pezzo di bigiotteria: un fermacravatte placcato d’oro, una sorta di souvenir che può acquistare chi visita la baia: «la mercificazione a basso costo della nostalgia»: un furbo e commerciale libraccio.
Infine arriviamo all’ultimo granchio, che Barth chiede di immaginare perché lui stesso non ne ha ancora visto uno. «Mi piacerebbe che ci fosse un disegno di Rembrandt con un granchio, blu o d’altro tipo, per illustrare la mia idea» confessa, e la sua idea è che quel granchio, ipoteticamente disegnato da un grande artista, possa sì riguardare il granchio in sé, e pure la tecnica, il colore, la capacità dell’artista. Ma l’ideale granchio di Rembrandt va ancora oltre, e va a evocare le umane passioni, la vita, la morte… È Arte con la A maiuscola o, spostandoci sulle lettere, Letteratura con la L maiuscola («il vero argomento della letteratura non sono gli eventi storici o le caratteristiche di un dato luogo, ma “l’esperienza della vita umana, nella sua felicità e nella sua sventura”» suggerisce Barth, facendo l’esempio di Guerra e pace, che sarebbe assai riduttivo etichettare come semplicemente un “libro sulle guerre napoleoniche”).

Simona Cozzupoli, “Acquario”
(courtesy: Simona Cozzupoli)

Questa efficace metafora ha però una falla. Perché non considera chi, usando i granchi imbalsamati, i granchi illustrati e persino i souvenir-paccottiglia può lo stesso arrivare a comunicare, attraverso le proprie opere, di massimi sistemi, di umane passioni, di vita, di morte, di ispirazione. Certo, serve talento per farlo. O meglio, sensibilità. O, meglio ancora, la capacità di vedere ciò che spesso le altre persone non vedono; l’apertura mentale, poi, per accoglierle nel proprio immaginario; e infine l’abilità di utilizzarle in maniera tale da suscitare meraviglia, che è forse il dono più grande che si possa regalare a un altro essere umano.
Ed è qui che entra in gioco Simona Cozzupoli, artista milanese che ha trasformato in arte la sua preziosa capacità di imbattersi in elementi apparentemente banali — carte da gioco, foto o illustrazioni di libri e riviste, oggetti da mercatino delle pulci, vecchie bambole, fili, frammenti di carta e cartone buoni per il cestino della spazzatura — e adoperarli per creare diorami che innescano, appunto, quel fuoco sacro che chiamiamo “stupore”.

«Le mie creazioni nascono dalla contemplazione di idee e sono la concretizzazione o trascrizione oggettuale di riflessioni che ruotano attorno ai temi dell’infanzia e dell’origine (dell’umanità e delle parole), del gioco, del sacro, dei simboli e degli archetipi, della divinazione, del caso e, sempre, della meraviglia, intesa come “ponte” verso una modalità conoscitiva intuitiva e preconcettuale. Come un koan, cioè un’affermazione paradossale che non può essere intesa dall’intelletto, la meraviglia crea le condizioni per un superamento della conoscenza/interpretazione razionale della realtà, mettendo in luce i limiti della logica e del ragionamento. Filo conduttore delle mie opere è proprio la meraviglia, ricercata attraverso un processo compositivo per montaggio, in cui è implicita la decontestualizzazione degli oggetti. Proprio lo spaesamento delle immagini, che tolte dal loro contesto rivelano sensi imprevisti, è all’origine dello stupore» spiega Cozzupoli, che, nel raccontarsi (e sul suo sito offre un intricato e intrigante ritratto di sé), è in grado di affascinare tanto quanto con le sue opere riesce a stupire.

Simona Cozzupoli, “Al cor gentil rempaira sempre amore”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Circus mediaticus (Cavaliere a dondolo)”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Età dell’oro”
(courtesy: Simona Cozzupoli)

Classe 1977, laureata in Lettere con indirizzo in Storia e critica delle arti all’Università degli studi di Milano, Cozzupoli dal 2017 espone le sue creazioni in alcuni tra gli spazi più particolari della sua città (caffè letterari, negozi insoliti, la chiesa più piccola di Milano, il bar più piccolo del mondo), seguendo un percorso di “affinità” che l’ha portata addirittura ad attirare l’attenzione del grande Luigi Serafini, l’autore del celebre Codex Seraphinianus, che ha definito i suoi diorami come “bellissime poesie portatili”.

A proposito di affinità, quando mi ha scritto, qualche tempo fa, lei mi ha raccontato di essersi andata a vedere un video in cui racconto me stesso attraverso cinque oggetti e di aver trovato analogie tra la sua concezione del processo creativo e la mia (mi scuso per l’autoreferenzialità ma trovo che quanto segue sia illuminante per conoscere un po’ meglio Cozzupoli): «quello che tu chiami “metodo degli indizi”» mi ha detto, «io lo applico istintivamente nel quotidiano, praticamente sempre e ovunque. E puntualmente noto particolari che mi catapultano in associazioni inaspettate e a volte illuminanti. Una frase che hai detto, in particolare, mi ha fatto scoppiare a ridere: “come fai a non prendere una trottola per terra?”. Ecco, questa frase sintetizza perfettamente il mio atteggiamento mentale. Anch’io trovo oggetti per strada e non me li lascio scappare: li prendo, li trasformo e li faccio diventare parte dei miei diorami, oppure li interpreto come spunto per altro. Se mi capitasse di trovare una trattola di legno per terra la prenderei, la vernicerei di azzurro o di rosa e la inserirei in una Natura morta contemplativa con giocattoli, su un piano inclinato tra le nuvole. Ogni tanto trovo oggetti indecifrabili (abbandonati in giro o nei mercatini dell’usato) e ne rimango affascinata. Tempo fa ho trovato sul marciapiede sotto casa la parte superiore di un orologio a pendolo, che quindi aveva un’apertura circolare con il vetro. Se consideri che da anni creo cerchi di cielo (che chiamo Templum e Templa) all’interno di scatole di legno chiuse davanti da un vetro, capisci che per me aver trovato un oggetto del genere è stato emozionante. L’ho preso, l’ho verniciato e ho creato all’interno un cielo con nuvole bianche e gru origami in miniatura».

Simona Cozzupoli, “Templum”
(courtesy: Simona Cozzupoli)

Usando il medesimo approccio, Cozzupoli lavora anche a collaborazioni più “istituzionali”: ha esposto in occasione del Fuorisalone; le sue composizioni con le figure delle carte da gioco sono in bella mostra al Mudec Design Store (dove, fino al 30 luglio, sono pure in vendita nel bookshop della mostra Dalì, Magritte, Man Ray e il Surrealismo); ha collaborato con Barilla per 12 micromondi dedicati al Pesto; fino a poche settimane fa altri micromondi erano ospiti del bookshop di Palazzo Reale in occasione dell’esposizione Bosch e un altro Rinascimento; da qualche mese le sue opere si possono trovare presso la Galleria L’Affiche di Milano, e attualmente sta lavorando su dei pezzi a tema per i bookshop di due altri grossi musei, uno a Milano e uno a Torino.

Tra acquari con pesci di carta, collezioni di farfalle, composizioni combinatorie di carte da gioco (il rimando evidente è a Calvino e al suo Il castello dei destini incrociati), i già citati Templa — che descrive come «cerchi (o ovali) di cielo azzurro (o rosa al tramonto), attraversati da nuvole tridimensionali e da stormi di gru origami in miniatura. Con queste opere alludo all’arte divinatoria etrusca degli auspici, che consisteva nell’osservazione del volo degli uccelli in una porzione di cielo selezionata e consacrata dal sacerdote con il lituo» —, i Rebus oggettuali (che, talvolta, oltre alla soluzione verbale hanno anche quella visiva), o quelle che lei chiama Nature morte contemplative, le opere dell’artista milanese sono carburante per tenere costantemente in allenamento quel senso di meraviglia di cui sopra, ma anche cibo per la mente, visti i molteplici spunti — artistici, storici, filosofici, letterari, narrativi — che attraversano diorami e collage, tracciando invisibili “link” con altri luoghi, altri tempi, altre dimensioni, altri immaginari.

«Tra le mie fonti di ispirazione» dice Cozzupoli «ci sono: le scatole poetiche di Joseph Cornell; le Wunderkammer; la pittura metafisica; i rebus; le mnemotecniche; la realtà “altra” del circo, dove si esibiscono “mirabilia” viventi; l’atmosfera fiabesca della mitologia, con la sua varietà icononografica di creature ibride (che confluiranno nei bestiari fantastici del Medioevo); la dimensione onirica di Alice nel Paese delle Meraviglie (quella di Lewis Carroll, ma anche la versione cinematografica di Jan Svankmajer, dominata da una visione lucida e ad occhi chiusi) e tante altre cose (reali o virtuali) nelle quali mi imbatto casualmente e inevitabilmente ogni giorno».
Sottolineo io: casualmente e inevitabilmente — la magia, in effetti, comincia proprio da lì. È — di nuovo — l’arte dell’imbattersi, che si impara, lentamente e con fatica, quando ci si ricorda, in ogni singolo istante, di restare svegli, sempre, e prestare attenzione a ciò che ci passa davanti: che si tratti di una trottola sul marciapiede, della storia di uno sconosciuto che ti attacca bottone alla fermata del bus, di un singolo raggio di sole che va a sbattere su una pietruzza di poco valore e per un istante fa risplendere il mondo.

Simona Cozzupoli, “Acquario”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Cavallucci psittacocefali”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Vita di San Giorgio”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Girafilastrocca”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “La battaglia (Labor omnia vincit improbus)”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “La battaglia (Labor omnia vincit improbus)”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Banchetto nuziale”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Mulier poculorum capite equino”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “L’equilibrista giocoliere funambulo”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Mulier baculorum capite equino”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “La fontana magica”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Natura morta contemplativa con idolo, sfere e farfalla”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
Simona Cozzupoli, “Natura morta contemplativa con locomotiva e giocattolo misterioso”
(courtesy: Simona Cozzupoli)
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