Colpo d’occhio, un libro di Alessia Tagliaventi in cui le fotografie fanno cose

All’inizio di ogni anno scolastico, ancora prima di sedermi nuovamente al mio banco, c’era una cosa che dovevo assolutamente fare. Non appena tornavo a casa dalla libreria, mi fiondavo in camera e sfogliavo ad uno ad uno i nuovi libri scolastici, scelti dai miei insegnanti. Volevo scoprire in anticipo cosa mi avrebbero spiegato, ma soprattutto dare un’occhiata alle immagini. Me le godevo da sola, sapendo che purtroppo si sarebbero perse in argomenti da trattare, verifiche da programmare e interrogazioni da preparare e temere. In pochi trovavano il tempo di raccontarci perché una determinata fotografia meritava di finire tra le pagine di un sussidiario.

Nonostante ora ci sarebbero molte ragioni in più per fermarsi a parlare di immagini tra equazioni e guerre mondiali, quel tempo non viene spesso cercato o trovato e uno spazio di possibilità rimane lì, trascurato. A prendersene cura e riempirlo ci ha provato recentemente Alessia Tagliaventi, editor, curatrice e docente di Storia della Fotografia, con il suo libro Colpo d’occhio. Le fotografie fanno cose, edito da Contrasto.

Diviso in 4 categorie — personaggi, luoghi, oggetti e animali — è una lezione di fotografia per ragazzi in versione cartacea: ogni immagine di grandi fotografi e fotografe, come Luigi Ghirri o Walker Evans, è accompagnata da un testo ed è un’occasione per incuriosirsi, farsi domande e costruire storie, di cui la fotografia è solo l’inizio. Ad aiutare in questa avventura visiva, c’è anche un rettangolo in cartoncino dotato di un foro al centro, perfetto per non perdere i dettagli.

Dopo essere tornata quell’alunna curiosa nello sfogliarlo, ho chiesto ad Alessia di raccontarmi di più sul libro, sulla sua genesi, sulla sua necessità e sull’importanza dello sguardo di quelli che sono ora tra i banchi di scuola.

Ritratto di Alessia Tagliaventi © Antonio Came
(courtesy: Alessia Tagliaventi / Contrasto)

Ti va di raccontarmi come è nato e poi cresciuto questo libro?

Insegno da tanti anni fotografia, storia della fotografia e cultura visuale, sia allo IED sia in altri contesti educativi. Ho sempre sentito la necessità e il bisogno di avere, soprattutto quando avevo a che fare con ragazzi più giovani, degli strumenti didattici, in particolare libri. Il problema è che in Italia, a partire dalla fine degli anni ’70, la fotografia è progressivamente scomparsa dalla produzione editoriale per bambini, fino a creare un vuoto di sperimentazione. Per questo da tempo avevo una sorta di ossessione: l’idea per me era quella di creare un libro a metà tra il libro di divulgazione sul linguaggio fotografico e il libro gioco, quindi utilizzare le immagini dei grandi autori e autrici e mettere i ragazzi davanti alla potenza della fotografia, con tutte le sue declinazioni e complessità.
La selezione dei contenuti, ovviamente, è stata fatta seguendo dei criteri: ho scelto immagini che potessero mostrare i vari aspetti del linguaggio fotografico, soprattutto quelli più sorprendenti, senza semplificare, per rispettare le fotografie e allo stesso tempo lo sguardo dei bambini, che hanno la capacità di affrontarle e interpretarle come chiunque. I testi, invece, non volevano avere il tono di chi spiega l’immagine, piuttosto raccontano le storie che si celano dietro o invitano a porsi domande su cosa stiamo vedendo, su quali sensazioni suscita la fotografia che abbiamo davanti, se ci piace o meno e perché. Volevo che fosse un invito ad una chiacchierata con le fotografie di grandi autrici e autori, e che fosse anche utilizzabile con i suoi spunti in contesti scolastici. All’interno del libro c’è anche un piccolo cartoncino con un foro al centro, una sorta di mirino, che aiuta ad attivare ancora di più lo sguardo e ad osservare più attentamente.

Il libro è diviso in 4 categorie — personaggi, luoghi, oggetti e animali. Quanto è stato difficile definirne solo 4 e trovare poi le immagini giuste, sapendo che il mondo là fuori continua a vedere la fotografia dei grandi autori e autrici come un argomento esclusivamente per adulti?

La divisione per categorie nasce per mantenere un aspetto di gioco. Queste 4 categorie sono come l’ossatura con cui costruire storie sempre nuove: si parte da un personaggio, lo si fa vivere in un luogo e incontrare poi un oggetto o un animale. Sono uno spunto per non fermarsi solo a osservare, analizzare e conoscerne la storia e il contesto, ma anche appropriarsi delle immagini e farle diventare altro, lasciare che siano attivatori di storie e di fantasia. La fotografia è tra le più complesse e misteriose delle arti visive, ci mette a contatto con la realtà ma ci dice pochissimo di quella realtà, fornendoci solo un frammento di tempo e spazio. È più il non detto che il detto e per questo può diventare un giocattolo magico.
La selezione, invece, è stata fatta cercando di trovare uno spettro di immagini che potessero coprire diverse cose che le fotografie possono fare. Ci sono immagini che ci mostrano momenti di quotidianità, ma allo stesso tempo ci dicono che se quella quotidianità la metti in un rettangolo, la inquadri e diventa immagine, diventa anche qualcos’altro; altre immagini ci portano indietro nel tempo, altre inventano un mondo come quelle di Mario Cresci o Silvia Camporesi, che costruiscono l’immagine e non colgono invece un momento di reale; altre immagini possono mettere i ragazzi in contatto con la contemporaneità, basti pensare che il libro si apre con Rafal Milach e con una sua fotografia di una protesta in Polonia contro le leggi che limitano il diritto di aborto.

Selfie nello spazio, Akihiko Hoshide, 2012 © Nasa Photo
(courtesy: Alessia Tagliaventi / Contrasto)

C’è un’età giusta per approcciarsi alla storia della fotografia?

Credo che dei bambini bisogna avere fiducia e non preservarli a tutti i costi. È ovvio che non li metterei mai davanti a immagini che sono faticose anche per noi adulti, ma già a metà del percorso della scuola primaria sarebbe importantissimo fare un lavoro di educazione all’immagine. Perché pensiamo a preservarli, ma poi lasciamo che guardino le immagini che continuamente ci circondano e che non sono sempre facili, come ad esempio le foto dall’Ucraina e giustamente chiedono, fanno domande. Per esempio, durante gli anni delle medie, si potrebbe raccontare loro cosa sia la guerra usando le fotografie di Robert Capa.
Purtroppo la fotografia non c’è nei programmi scolastici e i docenti non sono formati nel raccontarla. Sarebbe fondamentale mostrare ai ragazzi le potenzialità ma anche la complessità di un linguaggio che cominciano ad usare quando ottengono il loro primo cellulare e che utilizzeranno sempre di più crescendo. Il problema è che lo faranno senza avere avuto la possibilità di attraversare un’educazione visiva.
Quando insegno cultura visuale ai ragazzi di vent’anni e ragioniamo sulle potenziali interpretazioni di un’immagine o come cambia un’immagine a seconda del contesto, sono loro per primi a dirmi che queste cose avrebbero voluto averle già discusse a scuola.

Secondo te, il desiderio di preservare si può percepire anche nei confronti dell’adulto?

Tantissimo. Basta aprire un nostro giornale e guardare come trattano la fotografia.
Da una parte c’è sicuramente un’attrazione nei confronti dell’immagine fotografica, per cui abbiamo quasi un’ossessione nel voler fotografare tutto, dall’altra però c’è una grande ipocrisia, per cui certe cose meglio non mostrarle o vederle. Ovviamente si tratta di un discorso a dir poco complesso ed è normale chiedersi se veramente il giornalismo, che dovrebbe invece riportare la realtà, ritiene che questa possa essere un’operazione lecita ed efficace. Ma anche pensando solo all’opinione pubblica, ancora oggi la fotografia è considerata un fatto, che non ha bisogno di interpretazioni. Basta ricordare le immagini pubblicate dai giornali, ad esempio, durante il Covid, accompagnate da titoli allarmanti sulla presenza di affollamenti in varie città, senza tenere conto delle questioni legate allo schiacciamento della prospettiva, alla profondità di campo. È un grave problema, perché se l’immagine è un fatto, la puoi usare per farle dire cose che non dice e se non abbiamo quel percorso di educazione visiva, cadiamo facilmente in trappole.

In piazza, Alex Webb, Tehuantepec, Messico, 1985 © Alex Webb / Magnum Photos
(courtesy: Alessia Tagliaventi / Contrasto)

Hai notato una grande differenza nel modo in cui un adulto e un bambino si approcciano ad una fotografia?

Sì, anche se dipende da quale adulto guarda la fotografia.
I bambini, comunque, sono incredibili: non avendo sovrastrutture, fanno associazioni meravigliose e inaspettate, riescono a entrare nell’immagine fisicamente, identificando come si sentirebbero se ci fossero dentro. Si potrebbe pensare che gli aspetti formali siano più difficili da digerire per loro, ma non è affatto vero, sono velocissimi a capire i dialoghi tra i colori e le forme. Fanno domande curiose, a cui delle volte è difficile anche rispondere: ad esempio la fotografia di Helen Levitt presente nel libro, ci si potrebbe aspettare che per loro possa essere difficile, eppure, durante i lavori fatti nelle scuole, ci si sofferma parecchio perché hanno tantissime domande, sono curiosi.

Mi pare di capire dalle tue parole che il libro ha già viaggiato tra le scuole, come è andata questa esperienza? Hai già in mente come proseguire questa piccola rivoluzione?

Da quando è uscito, ho portato il libro almeno in tre scuole e ho avuto modo di mostrarlo a ragazzi di prima media. Hanno reagito con divertimento ed entusiasmo. Siamo partiti dall’immagine, chiedendoci cosa stessimo vedendo, cosa stesse succedendo, e ognuno aveva una propria idea, ma soprattutto dimostravano da subito che rispetto a quando avevamo la loro età, loro sono molto più abituati di noi alle immagini, sia osservarle sia a scattarle. Sono velocissimi anche nelle connessioni.
Per il futuro, mi piacerebbe allargare questo entrare nelle scuole, mi piacerebbe soprattutto che, oltre al lavoro con le classi, ci fossero momenti di formazione con i docenti, perché sono loro i mediatori e quelli che poi rimangono. Sarebbe bello vedere in Italia più libri per bambini che parlano di fotografia.

C’è stata una fotografia, tra quelle del libro, che, durante i tuoi incontri, ha attivato di più i ragazzi ed una che, invece, li ha messi in difficoltà?

Quando si arriva agli animali, solitamente è sempre un’esplosione di gioia e partecipazione.
In alcuni casi sono stati messi in difficoltà da una fotografia, che amo moltissimo, di Rinko Kawauchi: non riescono a capire se lo scatto con l’uovo sia vero o finto, sono spaventati dal fatto che non capiscono bene cosa stia accadendo, se il pulcino alla fine nasce o meno. Anche l’immagine dello scivolo di Trent Parke alcuni l’hanno trovata inquietante, un bambino addirittura mi ha detto che lo scivolo sembra un’entità. Se la guardo, adesso vedo anche io un’entità, come se avesse vita propria. 

Nascita, Rinko Kawauchi, 2005 © Rinko Kawauchi
(courtesy: Alessia Tagliaventi / Contrasto)

È il tuo primo libro di fotografia per ragazzi, cosa ti ha dato crearlo e portarlo nel mondo?

Ho imparato quanto sia importante mettere in discussione il proprio sguardo, che non sarà mai uguale a quello di un altro; che è meglio destrutturare le cose imparate, non per accantonarle ma per rimasticarle e rimodellarle.
Per me era importante che il libro non avesse un tono accademico ma anche che non passasse come un insegnamento su come guardare le immagini, perché i bambini e i ragazzi osservano meglio di noi.

Ho un’ultima domanda, questa volta personale: quando ti sei innamorata della storia della fotografia e dei grandi fotografi?

Mi ricordo perfettamente e una foto è dentro il libro.
Uno dei primi incontri con la fotografia è stato infatti con Josef Koudelka e il suo libro Gitani. Mi ricordo che sfogliandolo ero incantata, non riuscivo a smettere di guardare quelle immagini e mi sono fermata davanti alla fotografia di un uomo che, a mio parere, sta parlando con il cavallo. Non so ancora dirti perché quella foto per me è così magica, è semplicemente così. Se mi sento triste e guardo quella foto, il mio umore cambia. Mi sono innamorata di Koudelka e di quel suo lavoro.
Un altro momento del genere l’ho vissuto mentre ero ad una mostra di Francesca Woodman a Palazzo delle Esposizioni. Ho avuto la conferma che con la fotografia è un linguaggio potente  in grado di parlare in tanti modi diversi, può costruire un racconto appassionato della realtà gitani ma anche dare vita a intense narrazioni sull’identità e su proprio mondo interiore.

Alessia Tagliaventi

Colpo d’occhio. Le fotografie fanno cose

Contrasto, 2022
88 pagine

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