Studio FM milano: lasciare un segno

Lo studio FM milano nasce a Milano nel 1996, i fondatori sono Barbara Forni, Sergio Menichelli e in seguito Cristiano Bottino. Si uniranno successivamente altri quattro soci: Libero Corti, Domenico Liberti, Francesco Scagliarini e Ilaria Tomat.
I loro lavori si caratterizzano per una forte ricerca di un equilibrio tra rigore formale ed esigenze espressive. Il rigore lo ritroviamo nelle forme, disciplinate, razionali, geometriche, mentre l’espressività emerge spesso da un uso molto incisivo del colore.
Studio FM sembra essere una naturale evoluzione della scuola svizzera: di quella esperienza mantiene il rigore tecnico, l’attenzione formale, la ricerca dell’equilibrio estetico. L’obiettivo però è quello di forzare questi elementi portandoli verso maggiori possibilità espressive. La grafica deve comunicare rispettando sempre un equilibrio tra forma e contenuto, tra estetica e leggibilità, tra colori e forme.

Ho incontrato Sergio Menichelli , Ilaria Tomat e Francesco Scagliarini nel loro studio a Milano durante una piovosa giornata di novembre. Questo è quello che ci siamo detti.

Identità visiva e campagna di comunicazione Mudec, Museo delle Culture di Milano, 2015.

Quindi hai lavorato da Sottsass?

Sergio Menichelli: Sì, è così. Sottsass Associati stava in via Borgonuovo 9: ricordo che a fianco dicevano che c’era una casa d’appuntamenti, ma forse era solo una leggenda, ormai sono passati quasi trent’anni e non ricordo bene. Armani aveva lo studio vicino, penso fosse amico di Ettore. Io lì mi occupavo di grafica. Da Sottsass il mio capo era Douglas Riccardi, un bravissimo grafico di New York che prima lavorava da Tibor Kalman, un’icona della grafica americana.

All’epoca conoscevi già le sue posizioni sul progetto?

Non tanto, ero ancora un ragazzino. Mi muovevo nel mondo del design senza una chiara cognizione del panorama. So che tu sei amante del concetto dei Maestri, ma Sottsass non l’ho mai considerato un mio “maestro”. Però a me lui piaceva moltissimo come persona, lo adoravo: era l’uomo meno provinciale e classista dell’universo, trattava tutti allo stesso modo, tutti erano degni di essere ascoltati e presi in considerazione.
Amavo i suoi disegni, il suo modo di scrivere, le sue foto, ma i prodotti o gli interni che faceva non li capivo: all’epoca trovavo interessanti i progetti di Mari, Magistretti, Castiglioni, insomma i progetti da milanese ordinato, modernista, rigoroso. Quei cosoni tutti colorati erano per me una roba un po’ assurda. Amavo il suo prendere le cose con leggerezza, il fatto che fosse un assoluto antidogmatico. Ad un proprio collaboratore non ha mai detto “si fa così”, non voleva darti verità assolute, e forse questo è stato l’insegnamento più grande che ho ricevuto da Ettore.

Sottsass che idee aveva nei confronti della grafica?

Non aveva un metodo specifico per il design della comunicazione: per lui la grafica era un media sperimentale. Il suo modo di intendere il design grafico era molto più vicino al mondo dell’avanguardia. Sicuramente non ho imparato da Sottsass a costruire una griglia grafica o come utilizzare i caratteri tipografici: era un fuori catalogo, una persona che viveva in un pianeta parallelo. Fondamentalmente il metodo di Sottsass non pretendeva di insegnare un metodo.

Identità visiva e allestimento Muvig, Museo Virtuale Garofalo, 2016.

Poi nel ’96 avete fondato lo studio. All’epoca com’era la situazione della grafica in Italia?

In quei tempi erano pochissimi i punti di riferimento, Lupi, Cerri, Mario Piazza e pochi altri. Si trovavano un sacco di pubblicitari che si improvvisavano grafici, oppure anche architetti che non riuscivano a lavorare e che si inventavano un mestiere, con risultati di scarsissima qualità. Comunque c’era poca roba, numericamente pochissimi professionisti seri. Oggi invece c’è una qualità media nettamente superiore a quegli anni. C’è ormai uno standard qualitativo sulla grafica che all’epoca trovavamo solo a Londra.

Progetto grafico cataloghi Cassina, 2016.

Avete inserito Milano nel nome dello studio: cosa vi ha dato ed eventualmente cosa vorreste da questa città?

Se leggi l’ultimo numero di “The Passenger” dedicato a Milano si parla di un intero genere letterario che ha come tema l’odio per Milano: parlare male di Milano è una cosa che hanno fatto in molti e per molti anni. Io questa cosa proprio non la capisco, per me non è così, adoro Milano, mi piace viverci, mi piace lavorare qui. Milano ce l’abbiamo nel nome dello studio per un fatto affettivo, siamo legati a questa città: è il luogo dove ci siamo incontrati tutti noi, il luogo dove è nato studio FM, anzi no, studio FM milano.

Ilaria Tomat: Per me Milano ha rappresentato l’emancipazione dalla famiglia e dalla provincia ma capisco l’avversione che si può provare per questa città che negli anni è diventata un luogo difficile, poco accessibile: sempre più cara, sempre meno popolare. Un luogo che dà molto ma richiede moltissimo, a volte troppo.

Francesco Scagliarini: Da Roma sono venuto a Milano con un po’ di orgoglio, e di cattiveria nei confronti di un “Nord” che ci ha sempre trattati male, da “Roma ladrona”. Ma qui ormai ci ho comprato casa, non me ne vorrei andare, qui ci sto bene. Mi dispiace molto però vedere un veloce livellamento di questa città, è sempre più difficile trovare una genuinità, si sta andando a perdere una certa milanesità che ho amato appena arrivato qui. I luoghi stanno perdendo la loro connotazione locale, a volte mi guardo attorno e trovo spazi asettici talmente spersonalizzati che potrebbero trovarsi in qualsiasi altra parte del mondo.

Allestimento e catalogo mostra su Roy Lichtenstein, 24 ORE Cultura, 2019.

Che rapporto avete con la scuola svizzera? Sono per voi ancora valide le regole e gli scopi di quella cultura progettuale?

Per noi ogni volta è un progetto diverso, oggi decidiamo se utilizzare o meno i princìpi della grafica svizzera a seconda del cliente e del tipo di lavoro con cui abbiamo a che fare. Che poi son principi molto rarefatti, quello della scuola svizzera è uno dei molti linguaggi possibili, non è più quello principale. Una volta si era obbligati a confrontarsi in qualche modo con quel tipo di linguaggio, aveva una forte attrattiva ideologica e dava al grafico un apparato tecnico fondamentale, ma oggi non è più così.

Campagna di comunicazione, editoria, Pedrali, 2019.

La grafica svizzera aveva l’obiettivo primario di comunicare efficacemente, in modo rigoroso, funzionale, realizzando un messaggio chiaro e mai ambiguo. Successivamente diversi grafici hanno messo in discussione questo approccio: l’idea è che le regole svizzere portano ad una grafica stilisticamente ben strutturata ma con poche emozioni, risultando fredda e distaccata. Il loro lavoro si è fondato quindi sull’emozione, spesso rinunciando alla chiarezza del messaggio. Sperimentano un tipo di grafica più autoriale, più speculativa, più vicina al mondo artistico. Un esempio tra i tanti è quello di un autore come Stefan Sagmeister. Voi come vi ponete rispetto a questo tipo di ricerca?

Non credo a questo modo di intendere la grafica, non riesco a porre il mio lavoro su questo piano. Mi sento al servizio della persona che cerca le mie competenze: non ho lo scopo che qualcuno si commuova davanti ad un mio progetto. Ho una visione funzionale, pratica, del nostro mestiere. Trovo che se fosse più forte la nostra soggettività rispetto agli obiettivi della committenza, il nostro lavoro sarebbe fallimentare. Non voglio raccontare me stesso, ma voglio essere al servizio di qualcun altro.

Anch’io non trovo corretto fare della grafica una espressione del proprio mondo. Credo che la grafica sia invece una finestra da dove puoi vedere il mondo, credo che il mio compito di grafico sia affacciarmi a quella finestra e interpretare quello che vedo: molti mettono uno specchio al posto di quella finestra, si raccontano perché vedono solo la loro immagine e non quello che c’è fuori. Molti grafici autoriali vogliono dire la propria fregandosene totalmente del soggetto da narrare, è un modo di interpretare la disciplina che non condivido, non lo trovo corretto, né divertente.

E poi una delle cose più interessanti del nostro lavoro sono le storie che ci portano i clienti. Quello dobbiamo raccontare, crediamo sia giusto e in fondo bello essere al servizio delle storie degli altri.

Logo e identità visiva, OGR – Officine Grandi Riparazioni, Fondazione CRT, 2017.

A cosa serve la grafica? Qual’è il suo fine ultimo? Serve solo a comunicare quello che chiede un cliente?

Serve a lasciare un segno. Noi grafici, come i fotografi, i registi, gli attori, mettiamo in scena le cose che ci raccontano gli altri, i nostri committenti. E lo facciamo con il nostro media, che è la comunicazione visiva: un attore lo farebbe con il proprio corpo e la propria voce, da noi viene un imprenditore che vorrebbe raccontare la riqualificazione urbana di uno spazio. Un regista lo farebbe diventare un film, un fotografo una fotografia, noi grafici lo facciamo diventare un libro.

Art direction libro fotografico Achille Lauro, 2021.

È possibile parlare di Maestri in ambito grafico?

Credo di avere avuto molti maestri, ma sono fuori dall’ambito grafico. Qui in studio parliamo molto spesso di cinema e teatro più che di grafica: abbiamo imparato tantissimo da quegli ambiti più che da figure legate alla nostra disciplina. Per la mia generazione ci sono una serie di progetti iconici prima che una serie di figure iconiche: i Maestri degli anni ’60 e ’70 li trovo meno importanti dei loro specifici progetti.

Per noi fondatori dello studio, se abbiamo mai avuto dei riferimenti negli anni ’90, sono stati all’estero, in Inghilterra, o negli Stati Uniti a New York. Qui non abbiamo mai pensato di uccidere i nostri padri in patria, in Italia. Non ci sarebbe mai venuto in mente ad esempio di fare una rivista come Il Politecnico: Albe Steiner era un mito, ma ormai un po’ troppo lontano da noi e dalla nostra vita da grafici. “Patria” vuol dire letteralmente “terra dei padri”: forse la grafica è un po’ senza patria, un po’ senza padri, e forse è meglio così.

Seguendo sempre il tema della “patria” per voi è esistita una grafica italiana? Una grafica che ha delle caratteristiche specifiche nel nostro paese?

Ho tanti riferimenti che vengono da tutto il mondo e non credo che esista una grafica italiana. Credo invece che esista una committenza italiana che forse è diversa da quella di altri paesi, una committenza che fa riferimento a una certa cultura visiva e che ha determinate aspettative rispetto al nostro ruolo.

L’Italia ha un tessuto culturale estremamente variegato, metterlo insieme è impossibile. Non credo molto ai confini geografici, soprattutto nel campo delle arti espressive: ad esempio Picasso era più andaluso o parigino? Sarebbe impossibile rispondere, e, forse, anche domandarselo ha poco senso.

Logo e identità visiva della Quadriennale di Roma, 2022.
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