Ricordo quegli anni come un momento storico molto cruento. L’atmosfera in città era molto pesante, perché gli omicidi non riguardavano più soltanto la cerchia dei clan mafiosi, ma cominciavano a estendersi oltre, negli ambienti della politica e dell’imprenditoria. Per rendere l’idea: qualche anno prima, mentre andavo di primo mattino alla fermata dell’autobus che mi portava al liceo, mi ero imbattuto in un corpo inerte disteso pancia a terra sulla strada deserta. Era la vittima di una tipica esecuzione mafiosa. Quando iniziai a collaborare con L’Ora avevo vent’anni.
Cresciuto nella Palermo punk degli anni ’80, che immortalò in numerosi scatti confluiti poi in un bel volume pubblicato qualche anno fa da Yard Press, il fotografo Fabio Sgroi iniziò a farsi le ossa come professionista al quotidiano L’Ora, all’epoca in prima linea nella lotta alla mafia, lavorando per conto del giornale nell’agenzia Informazione Fotografica, fondata da Letizia Battaglia e Franco Zecchin.
Tra i primissimi fatti di cronaca che Sgroi si ritrovò a documentare ci fu il ritrovamento del cadavere di Salvatore Marino, un calciatore arrestato durante le indagini per la morte del commissario Beppe Montana, ammazzato dalla mafia. Il corpo di Marino fu ritrovato sulla spiaggia, abbandonato lì dalla squadra mobile dopo ore di torture. Erano gli anni, quelli, in cui la cosiddetta Seconda guerra di mafia si era appena conclusa, gli anni della costruzione della famosa aula bunker all’Ucciardone e, soprattutto, gli anni del maxiprocesso. «Per quell’occasione» racconta Sgroi «mi prestarono un corpo macchina, una Voigtländer che si bloccava, così ad ogni scatto dovevo togliere l’obbiettivo, abbassare lo specchio, rimontare la lente e riscattare. Dovetti ripetere la procedura per tutta la pellicola».
Negli scatti di quel periodo ci sono cadaveri e auto crivellate di proiettili, bare e folle radunate ai funerali o a curiosare sul luogo di un crimine. Ci sono Falcone e Borsellino, i momenti del maxiprocesso, i politici che fanno la passerella tra le strade di Palermo. E poi le manifestazioni, le proteste degli operai, la povertà delle famiglie dei quartieri popolari. Ma accanto alla “nera” appaiono anche i reportage — come quello dell’86 sulle notti palermitane — e momenti più leggeri, come Ilona Staller che la vigilia di Natale del 1987 presenta la sua candidatura per il Partito Radicale, o Moana Pozzi che poche settimane prima è al cinema Étoile, sala a luci rosse nel centro della città.
Il bianco e nero di Sgroi — suo marchio di fabbrica, adottato dapprima perché, semplicemente, nelle redazioni dei giornali si lavorava così («La rotativa chiudeva intorno a mezzogiorno» spiega, «e dato che il giornale usciva nel primo pomeriggio, per coprire gli articoli dei giornalisti bisognava precipitarsi sul posto. Subito dopo si entrava in camera oscura a sviluppare i negativi; una volta asciutti, si stampavano le foto in carta politenata, formato 13×18, e si consegnavano al più presto in sede, a volte ancora bagnate»), poi diventato parte integrante del suo linguaggio fotografico anche negli anni a venire — è caldo e pastoso, mentre lo sguardo della fotocamera si avvicina o s’allontana, talvolta registrando la realtà dalla debita distanza che occorre per comprenderne il contesto, talvolta gettandosi invece in mezzo alla gente. «A Palermo dovevi stare attento a chi fotografavi» disse il fotografo in un’intervista di Marta Federici uscita l’anno scorso su Flash Art. «Nelle occasioni delle feste rionali, ad esempio, dovevo sempre avere un occhio vigile. E forse questo mi ha formato, mi ha aiutato ad affinare un certo tipo di intuito, a capire se posso avvicinarmi oppure no a un soggetto».
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