Un posto obliquo: il primo volume della collana “Scopri” di Start è dedicato al Parco Chigi

Abbiamo intervistato Gioia Marchegiani, autrice delle illustrazioni

«Questa storia è accaduta un po’ di tempo fa, negli anni settanta del secolo scorso. Due lustri dopo, o forse tre, il palazzo e il suo grande parco sarebbero stati venduti dai proprietari alla piccola città che li accoglieva entrambi. Ma all’epoca non se ne parlava: non ancora. E l’immensa casa, coi suoi mobili e quadri e tende e parati e la cucina annerita e gli affreschi ai soffitti e l’antico barco che iniziava dove una prua misteriosa indicava la rotta, era quasi sempre chiusa, disertata e deserta, o almeno così pareva a chi la sbirciasse dalla strada fuori».

Inizia così, in una dimensione tra realtà e magia che già preannuncia salti temporali, esplorazioni e scoperte, il libro illustrato Un posto obliquo, frutto di una residenza artistica organizzata dall’associazione culturale Start, di base ad Ariccia, che ha invitato le due autrici — Federica Iacobelli, scrittrice di letteratura per ragazze e ragazzi oltre che autrice per il teatro, il cinema e la tv, e Gioia Marchegiani, illustratrice, pittrice e autrice — a immergersi per qualche giorno dentro al grande protagonista del libro stesso, il Parco Chigi, sempre ad Ariccia, un bosco pieno di storie e di Storia con la S maiuscola, del quale il volume è una sorta di insolita guida, che si muove a cavallo del tempo e rielabora, attraverso la fantasia, le vicende del luogo.

Fortemente voluto da Gaia Cianfanelli e Giuliana Riunno, curatrici di Start, il libro è anche il primo titolo della nuova collana Scopri, prodotta dall’associazione e dedicata a progetti editoriali che invitano appunto a scoprire i luoghi attraverso narrazioni e immagini che avranno la loro genesi proprio nell’esplorazione di artiste e artisti durante una serie di residenze artistiche.

Il libro verrà presentato ufficialmente, insieme alle due autrici, domenica 18 settembre all’interno del Parco Chigi.
Nel frattempo ne abbiamo parlato con Gioia Marchegiani, durante una lunga chiacchierata che ho poi condensato nell’intervista che segue.
Le foto e le illustrazioni sono tutte dell’artista (o del suo archivio) e sono relative al libro Un posto obliquo, nelle sue fasi di elaborazione fino ai definitivi.

Prima di chiederti la genesi del progetto, vorrei iniziare da te e dalla tua storia. So che hai studiato allo IED di Roma e sei stata diversi anni in Svizzera.

Poco dopo la fine dello IED ho fatto qualche piccolo lavoro nell’editoria e in seguito, con quello che poi sarebbe diventato mio marito, siamo partiti per un’esperienza all’estero. Volevamo andare prima in Inghilterra e in Francia ma poi abbiamo puntato verso la Svizzera, dove ci siamo trovati benissimo. Avevamo una casetta sul fiume e lì sono nate Chiara e Alice, le nostre figlie. In Svizzera ho lavorato come illustratrice per piccoli progetti, ma soprattutto ho potenziato le tecniche pittoriche — su tutte l’acquerello —, che poi ho anche insegnato. Inoltre ho studiato scultura, ho imparato il tedesco e, grazie a un’amica dell’Idaho, ho appreso l’arte del restauro dei mobili.
L’idea, tuttavia, era quella di tornare prima o poi a Roma, e dopo quasi dieci anni siamo appunto arrivati di nuovo in Italia, con tanta fatica e con tutte le difficoltà del vivere in una grande città, ma felici della scelta. Al mio ritorno ho trovato un panorama dell’illustrazione totalmente cambiato. A partire dalle scuole di illustrazione e grafica.

Cambiato in che modo?

Innanzitutto in senso quantitativo. Ho ritrovato un mondo dell’illustrazione pieno di professioniste e professionisti. E poi il fermento, soprattutto per quanto riguarda l’editoria per ragazzi, che infatti ora è in una fase molto positiva.
Quando io sono partita dall’Italia il settore dell’illustrazione italiana non era a questi livelli. Tutto l’ambiente era molto più “vago”, non saprei come meglio definirlo. Le stesse scuole non è che preparassero così bene al mestiere, mentre oggi ti insegnano molto meglio come impostare un percorso professionale di questo tipo.

Questa evoluzione l’ho vista anche io, da fuori. Oggi si insegnano, di più e meglio, non solo teorie e tecniche ma anche il mestiere dell’illustrare: come costruire un portfolio, come avvicinarsi alle case editrici, come si lavora per le riviste, come fare “personal branding”, ecc.

Sì, lo vedo anche da dentro, dato che dall’anno scorso insegno tecniche di colorazione tradizionale al NID di Perugia. Per me è fondamentale dare a studentesse e studenti gli strumenti per essere pronti “a farcela”, per non illudersi, per essere obiettivi con loro stessi.

E come sei rientrata in gioco, una volta tornata in Italia?

Ho deciso di puntare sui concorsi. Il primo fu il concorso per l’albo illustrato inedito “Syria Poletti”, di Sacile. Ho partecipato con Fantavolieri, scritto e illustrato da me, e fu selezionata una mia tavola per la mostra. Un anno dopo il progetto è stato pubblicato da Gribaudo editore. È stato quello il mio debutto nell’editoria per ragazzi. C’era il professor Sossi nella commissione, che ricordo con affetto e stima.
Due anni dopo ho partecipato allo stesso concorso, con il progetto libro Nadeema e Shair, con il testo di Cristiana Pezzetta, amica archeologa e scrittrice, che narra della nascita dell’agricoltura per mano di una bambina e un seme del Neolitico. Ci siamo aggiudicate Primo Premio e Superpremio e poco tempo tempo dopo il progetto è stato pubblicato da Anicia edizioni di Roma con il titolo Terra tra le mani. Con Cristiana nel 2010 abbiamo fondato l’associazione Semidicarta, che ha dato sostegno alle nostre attività di letture e laboratori con i bambini, e anche agli incontri di formazione per adulti intorno all’illustrazione, la scrittura, la lettura condivisa. Il contatto con i bambini ha nutrito gli anni della ripresa dei passi nell’editoria per l’infanzia. Esperienza ancora oggi fondamentale per me.
Poi ci sono stati workshop con importanti illustratori (indimenticabile quello con Květa Pacovská), grafici e editori: quelle sono state occasioni di incontro e confronto anche con colleghi molti dei quali oggi sono amici. Ho soprattutto preso consapevolezza di come e quanto essere illustratori sia un lavoro complesso che a mio avviso non può prescindere da competenze nell’ambito della grafica, della stampa…
Nel 2017 sono stata selezionata per la Mostra Illustratori della Bologna Children’s Book Fair, con le illustrazioni de Il campanellino d’argento, pubblicato da Topipittori, con il prezioso testo di Maria Lai.
Questo in breve il mio percorso. Come sai in questo lavoro non c’è una strada uguale per tutti, ma certamente oggi, con la formazione, internet e social, si hanno più strumenti per capire come procedere.

Tu sei molto conosciuta per l’illustrazione botanica. So che questo è un tema che ti affascina fin da bambina, pur non essendo cresciuta in campagna.

A Roma, durante l’infanzia, ho avuto la fortuna di avere un condominio con un bel giardino, dove ho sperimentato selvaggiamente con i miei amici ciò che significa stare a contatto con gli alberi, la terra, i cespugli. Avevo il mio balcone, dove coltivavo le mie piante, e guai a chi me le toccava. E poi ho sempre disegnato piante e animali. Ho frequentato il Liceo Classico — con grande fatica perché avrei voluto fare l’Istituto d’Arte — e una volta uscita da lì avevo ristretto la scelta tra scienze naturali e illustrazione, perché nel frattempo avevo scoperto che si poteva disegnare per dei libri. Ho scelto illustrazione, appunto con lo IED, ma adesso sto in qualche modo ritornando alle scienze naturali.
In Svizzera questo amore per la natura si è amplificato ulteriormente. Lì ho iniziato a dipingere en plein air e, una volta tornata a Roma, collaborando con Hortus Urbis, ho compreso anche il valore terapeutico di questa pratica. Dipingere o disegnare dal vero, anche un ritratto, è un’occasione di contatto più profonda, che si percepisce poi guardando l’opera.

Andando a riguardare la mia produzione editoriale, ritrovo tantissima natura, fin dai Fantavolieri, e poi in Iole la balena mangiaparole, in Nel prato azzurro del cielo, dove ho illustrato le poesie di Antonia Pozzi, ne Il campanellino d’argento, su testi di Maria Lai, e nel recentissimo In un seme, vera e propria pubblicazione didattico-scientifica che fa parte della collana PiNO dei Topipittori, ricca di volumi interessanti, bellissimi e speciali anche per il formato, la grafica e lo sguardo sul “meraviglioso” da raccontare.
Mi piace cercare il modo per raccontare al bambino la natura, riuscire a trasmettergli il senso di meraviglia. Immagino il libro come uno strumento che si possa usare, elaborare e trasformare nelle mani di un bambino e di chi ne condivide con lui la lettura. Questo porta alla necessità di fare una grande ricerca, prima ancora di mettere mano al lavoro pratico dell’illustrare.

Riguardo a questo, so che fai ricerche anche molto lunghe. Per esempio sul sito di Topipittori ho letto che, per Il campanellino d’argento, dall’idea iniziale al prodotto finale è passato molto tempo, anche perché dopo essere stata in Sardegna hai trovato la maniera più efficace di raccontare per immagini.

Secondo me è importantissima la consapevolezza di ciò che stai dicendo, non solo con le parole ma anche con il disegno e la pittura. Ciò che racconti, che spieghi, deve essere vero, funzionare, stare in piedi anche se si spazia nella finzione. Nel mio caso è ancor più fondamentale essendo la mia un tipo di illustrazione realistica.

Sempre sul sito di Topipittori hai scritto: «Cercare di riprodurre la peluria dello stelo di un papavero, la superficie vellutata di una foglia di salvia o l’azzurro del fiore di cicoria selvatica è un’esperienza che avvicina intimamente alla natura. È uno dei modi più belli di comprendere come ogni dettaglio abbia una ragione, come sia la forma ottimale raggiunta per uno scopo ben preciso, nel grande come nel minuscolo».
Da dove viene, secondo la tua opinione, questo tuo tipo di approccio alla ricerca?

Sicuramente c’entra la mia formazione classica, l’idea del piacere di approfondire, di fare ricerca, di cercare le storie che stanno dietro alle cose, magari a partire dall’etimologia di una parola. Tanti nomi di fiori hanno un’etimologia straordinaria.
Ma ovviamente la ricerca richiede tempo, e i tempi lenti sono la mia modalità. Attraverso l’attenzione al dettaglio io vado a cercare la poesia. Io ci credo a questa cosa della “poesia delle piccole cose”, che nella peluria della salvia ci sia qualcosa che si lega a un’emozione, a un sentire.

Anche per me la fase della ricerca è la più divertente e interessante. Ma reca con sé, credo, una grande trappola, quella di perdersi nella ricerca stessa, senza poi arrivare a concretizzare un risultato. Il ricercare si dirama, si intreccia, e potrebbe continuare all’infinito, e talvolta è difficile realizzare quando arriva il momento di mettere un stop. Capita anche a te?

Sì, e infatti mi perdo. A volte ho paura di non riuscire a mettere in ordine tutto quello che ho trovato. Per questo la fase di creazione ha i suoi momenti, compresi tempi morti, di pausa, di silenzi. Tempi che sono necessari. Ho imparato, piano piano, a concedermi questi momenti fermi, e grazie al cielo ci sono editori comprensivi, come i Topipittori. L’importante è che poi si arrivi a un risultato finale che soddisfi tutti, frutto di dialogo e scambio — altro ingrediente fondamentale. A volte si vive molto, troppo intimamente il mestiere dell’illustrare. Credo invece che in questo lavoro debba esserci il momento della solitudine e quello di incontro con l’altro, che può essere l’editore, un esperto, un collega… Il mitico brainstorming, insomma, secondo me funziona se fatto con le persone giuste.

A proposito di questo, ti chiedo della collaborazione con l’associazione Start che poi si è concretizzata con il libro Un posto obliquo. So che tu e loro vi siete incontrate per la prima volta grazie a Il campanellino d’argento.

Sì, organizzarono una mostra dedicata al libro. Ci siamo trovate subito in sintonia. Ecco, loro, Gaia Cianfanelli e Giuliana Riunno, sono due persone con le quali un confronto, per me, è prezioso. Il loro modo di guardare all’arte contemporanea e all’illustrazione è per me nutrimento. Quando mi hanno proposto il progetto editoriale, mi è piaciuto subito. Con Federica Iacobelli, l’autrice del libro, non ci conoscevamo, ma è stata una bella e preziosa scoperta. Lavorare con tutte loro è stato un percorso di osservazione e approfondimento molto nutriente.

Il libro è nato da una residenza. Come sono andate le cose?

Io e Federica ci siamo incontrate ad Ariccia. Le ragazze di Start ci hanno trovato un piccolo appartamento. Le giornate, tre, erano organizzate in momenti tutte assieme, noi insieme a Start, momenti solo per me e Federica, insieme nel parco, e momenti tra noi nell’appartamento.
Il primo giorno è stato di conoscenza. Abbiamo parlato molto. Dal secondo giorno in poi abbiamo cominciato a lavorare, cercando di immaginare come arrivare a lettrici e lettori, bambini e adulti. Il parco è una dimensione che ci ha dato subito la sensazione che comunque ci fosse spazio per essere noi stesse.

Quindi in quei tre giorni avete tirato fuori le idee che poi, da lontano, avete sviluppato.
È nata prima la scrittura o sono nate prima le immagini?

Qualcosa è nato già lì. Appunti, tanti. Sia di Federica che miei. Anche io scrivo molto. Il linguaggio scritto lo sento molto vicino. Il testo definitivo è venuto dopo. E dopo ancora le illustrazioni.
Sempre, ogni progetto-libro a cui lavoro, ho uno o più quaderni su cui metto tutto quello che mi viene in mente. Ciò che poi ci sarà oppure no nel libro. Schizzi e appunti di quello che voglio tenere e elaborare della mia ricerca.
Uno dei modi fondamentali per mettere in ordine tutto il materiale di quella ricerca, prima di passare ai definitivi, è poi buttare giù lo storyboard. Lì visualizzo cosa tenere e cosa togliere. Lì perfeziono la questione del ritmo del racconto illustrato. Il ritmo è fondamentale. L’alternarsi di pausa e movimento. In questo libro, poi, che narra di un attraversamento, per me era importante assecondare il movimento, ma anche generare delle soste. Utili a osservare per pensare o farsi domande. Un po’ come si fa quando si esplora un luogo. Ci si concentra sul percorso ma ci si sofferma su ciò o su chi lo abita. Lo storyboard non è mai solo uno. Ma evolve.

Nel libro la narrazione è inframezzata da diverse tavole solo naturalistiche, con la flora e la fauna del parco. Sono appunto come delle pause, che invitano a scoprire. È stata una scelta tua o di tutto il gruppo di lavoro?

Naturalmente le ragazze dell’associazione volevano che, in quanto guida — insolita ma pur sempre guida — nel libro ci fosse attenzione alla flora e alla fauna del parco. Il come farlo l’hanno lasciato a me. Così ho pensato anche ad alcune tavole naturalistiche in cui avvicinare flora e fauna tipici del parco. Che poi rimanda all’idea stessa della collana Scopri, che ha come simbolo un quadrato. Avviciniamo un dettaglio, scopriamo com’è fatto da vicino.

I soggetti e le tecniche — un mix di acquerelli e inchiostro — li hai scelti già mentre eri lì oppure dopo?

Ho scattato tantissime foto e poi, come ho già detto, molti schizzi e appunti. La scelta di mettere insieme acquerello e inchiostro è nata già lì sul posto. Ne abbiamo discusso insieme quando, l’ultimo giorno, abbiamo messo tutto sul tavolo, e si è evidenziato un duplice linguaggio, due livelli narrativi a fare da legante tra parole e realtà: l’acquerello per raccontare la natura e il parco così come sono, l’inchiostro per le vicende del racconto di Federica. Le due tecniche si sarebbero poi incontrate.

E poi ci sono le sagome bianche, che sono quelle dell’architettura e delle figure della storia. Rappresentano ciò che ho voluto lasciare all’immaginazione, una porta tra il reale e il fantastico. Perché dopotutto il protagonista è il parco. Noi, io e Federica, dovevamo raccontare quello, e tutto ciò che ci sta dentro è uno spunto per entrare in una e tante storie — perché il Parco Chigi è pieno di tante storie e quella scritta da Federica è una di esse.
Infine mi preme portare l’attenzione anche sull’intervento del grafico, Francesco Sanesi, che ha pensato quel filo che attraversa le pagine, “trait d’union” sul nostro racconto che a tratti si perde nel fitto intreccio dei rami, nel buio e nei bagliori. 

Il protagonista è un ragazzo, Renato. Su cosa ti sei basata per disegnarlo?

Ho cercato un ragazzo universale. Non doveva essere troppo contemporaneo, ma non volevo neanche fosse troppo antico. L’illuminazione è arrivata in viaggio, mentre ero in vacanza a Ravello, davanti alla statua di Hermes in riposo, a Villa Cimbrone, il cui originale è conservato al museo archeologico di Napoli. Ci ho visto il mio Renato e l’ho quindi utilizzata come modello. E questa scoperta mi ha fatto capire che dovevo procedere in questo modo anche per gli altri personaggi. Flora è una statua che ho visto lì ad Ariccia. E l’erma bifronte è il guardiano.

Quanto sei stata ispirata dalle tante storie, anche magiche del luogo? Dopotutto lì siamo a due passi da Nemi, che dà il “la” al celeberrimo libro Il ramo d’oro di Frazer.

La mia formazione classica ci ha navigato. E le ragazze di Start ci hanno dato tantissimi materiali storici sul luogo, che nel testo Federica accenna senza rivelare completamente. È un testo che va letto con attenzione e va approfondito. Dentro ci si possono ritrovare molti spunti.

Che tipo di documenti relativi al luogo vi hanno fornito dall’associazione Start?

Ci hanno dato tantissimi testi, intere sezioni di libri, fotografie, citazioni. Storia, mitologia, tutto ciò che è stato raccontato e scritto del parco.
Io poi sono andata a vedermi i pittori che hanno dipinto il luogo, tipo Corot, Turner…
Tre le tante ispirazioni, anche i reperti nelle teche del museo, e i ritratti della famiglia Chigi.
La “presenza” dei Chigi si sente molto nell’atmosfera del parco, e c’è una tavola a cui tengo particolarmente — che ho disegnato su cartoncini sui quali mi appoggio per lavorare, quindi con macchie di inchiostro e colore — che li ritrae. Mi sono ispirata ai murales che ha fatto Kentridge sul lungotevere, caratterizzati dal disegnare togliendo. Ho immaginato i ritratti dei Chigi sui muri perimetrali del parco e, visto che Federica nel suo testo racconta che il guardiano era intento a pulire i muri, ho pensato che, come Kentridge, ne venissero fuori i ritratti di alcuni dei Chigi.

Le due pecorelle, centrali nel racconto, esistono davvero?

Sì, e le abbiamo viste. È stato in un momento in cui ci eravamo perse dentro al parco. Ci siamo voltate ed ecco le due pecore! Sapevamo che erano lì, ma è stata una visione folgorante. 
Il Parco Chigi è spesso utilizzato come set per il cinema. Anni fa, proprio per girare qualcosa, portarono quelle due pecore e al termine della produzione le dimenticarono. E loro da allora vivono lì. Da anni. Hanno tantissimo pelo, sono come delle palle.

Che libro è, per te, Un posto obliquo?

Potrebbe sembrare un libro autoreferenziale — «ah, hanno fatto la residenza d’artista…» — e invece credo sia un progetto che mette al servizio di chi legge tanto materiale, che invita a guardare cosa c’è in un posto piccolo, circoscritto, quasi sconosciuto (perché il Parco Chigi non lo conoscono in molti, e non lo conoscevo bene neanche io, nonostante mia nonna fosse proprio di Ariccia). È un discorso universale, che si può riproporre in ogni parte del mondo. Se ci mettiamo a osservare un luogo e proviamo a raccontarlo andando a cercare tutto ciò che è passato di lì, ne potrebbe uscire un libro, e uno non basterebbe nemmeno.
Un posto obliquo può essere venduto come guida non convenzionale, per chi vuole farsi un’idea della storia del posto; come albo per l’infanzia; come lettura per un adolescente che sta vivendo una fase di cambiamento e di attraversamento.

Tu e Federica avete sentito la responsabilità di realizzare il primo volume di una nuova collana? Il fatto di dare un tono, una voce?

Sì, ma Giuliana e Gaia ci hanno tranquillizzate dicendoci che ogni libro sarebbe stato una cosa a sé, dal formato allo stile.

I primi tuoi libri li hai scritti tu. Poi hai lavorato perlopiù su testi altrui. C’è differenza, quando si tratta di illustrare? Pensi che tornerai anche a scrivere?

È molto difficile ricevere sempre testi con i quali sentirsi in piena sintonia, per forma o contenuti. Ma anche quella è una sfida, trovare la chiave giusta per affiancare la propria voce. Ci sono autori che mi piacerebbe incontrare in nuovi progetti. E c’è il desiderio di tornare a scrivere. La parola scritta fa parte di me e affianca spesso il disegno. Sono per me e in me due linguaggi complementari. Ho tanti progetti nel cassetto, stanno lì, custoditi dal buio, come semi in attesa.

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