Ci sono una serie di cose che omettiamo di elencare quando raccontiamo di cosa è fatto l’uomo. Credo che oramai sia chiaro a tutti che per buona parte siamo fatti di acqua, pelle, sangue e quant’altro. Eppure tagliamo fuori cose altrettanto importanti, tagliamo fuori le emozioni, le scelte, le passioni, gli errori, le conquiste e soprattutto i ricordi. Certo, non è mica come voler indicare con un dito dove si trova un organo nel nostro corpo. I ricordi, in particolare, vivono delle volte al di fuori di noi, perché ce li mettiamo noi o perché ci finiscono. Si nascondono nel racconto di un genitore al figlio, nella fotografia ingiallita di un album, nella coppa impolverata di un torneo sportivo, in un piatto che abbiamo mangiato diverse volte, nelle parole scritte in un diario pigiato in fondo al cassetto, in un gesto che ripetiamo da sempre.
Mario Curnis i suoi di ricordi li ha messi tutti nelle parole e nelle immagini di un libro — Diciotto Castagne: la montagna, il bosco, la felicità — edito da Rizzoli e realizzato grazie anche all’aiuto dell’amico giornalista e scrittore Angelo Ponta.
Il primo ricordo è nel titolo, perché le diciotto castagne cui si riferisce sono il numero esatto che sua mamma infilava nel sacchetto del pranzo, quando, a 13 anni, andava a lavorare in cantiere e la fame era una compagna quotidiana. Per gli altri bisogna addentrarsi, come si conviene ad un libro, nella storia di quest’uomo, che nella sua vita è stato operaio edile, ma anche alpinista, che se la ricorda bene la miseria del dopoguerra, della commozione del padre quando per la prima volta in tavola avanza del cibo; ricorda bene anche la prima volta che ha messo mano sulla roccia per provare ad arrampicare ai torrioni della Cornagera, vicino Nembro, così come il bar Alpino di Leone Pellicioli, le prime vie di arrampicata e poi la passione che scoppia e che lo porta lontano, sulle Ande prima, poi sull’Himalaya, provando a raggiungere le vette di Everest, Lhotse e Makalu; ricorda ovviamente i compagni di cordata con cui ha affrontato le sue avventure, come Bergamelli, detto Stremasì, e Renato Casarotto, Reinhold Messner, Simone Moro, ma soprattutto la più importante, la moglie Rosanna, sempre lì a resistere e pronta a riabbracciarlo al rientro con un dolce sorriso sul volto.
Fa male invece ricordare l’azienda edile che fallisce, la perdita di tutto che poi si dimostra niente, la malattia che è una seconda botta mica da ridere; ma poi la tensione si allenta perché la memoria gli suggerisce che c’è stato un dopo a tutto quel dolore, c’è stata la scelta di allontanarsi da tutto e ritrovare la vita a San Vito, la vita che ha sempre voluto vivere, la vita che vale tanto quanto quella di animali e piante che gli sono vicini di casa, nella sua baita, assieme all’amore di una moglie che gli ha donato gran parte della forza necessaria per continuare a resistere.
E potrei continuare a elencarvi ancora quali altri ricordi sono custoditi dentro e fuori quest’uomo di 86 anni, delle sue riflessioni sul modo e il mondo in cui viviamo oggi, su certe bussole interiori che non sappiamo più usare, sulla felicità che cerchiamo nei posti sbagliati. Ma si tratta della vita e dei pensieri di Mario, non è roba mia ed è giusto che sia lui a raccontarvi meglio tra con il suo libro.

(courtesy: Archivio Curnis / Rizzoli)

(courtesy: Archivio Curnis / Rizzoli)

(courtesy: Archivio Curnis / Rizzoli)