Guglielmo Poletti: la ricerca dell’archetipo

I designer italiani del dopoguerra si sono distinti puntando con grande energia a quella che potremmo chiamare etica della bellezza. Assieme a i valori funzionali o ergonomici, l’obiettivo finale del designer era progettare oggetti belli, formalmente corretti dando all’estetica un valore primario. Questa posizione è stata messa in crisi all’inizio di questo secolo quando diverse scuole di pensiero, provenienti soprattutto dal Nord Europa, hanno cominciato a criticare l’interpretazione “estetizzante” italiana: la componente formale degli oggetti ha così perso valore, venendo sostituita dalla progettazione di oggetti che sono principalmente veicoli di messaggi. Il fine estetico si è trasformato un fine informativo.

Guglielmo Poletti lavora su una strada vicina all’etica della bellezza, però fortemente influenzata dagli studi fatti alla Design Academy di Eindhoven: da lì ha acquisito la capacità di progettare lavorando direttamente sui materiali. Il suo è un progetto di sottrazione e ricerca di semplificazione della struttura. Nessun ammiccamento alla moda, semmai ricerca di forme pure e di oggetti che possono rimanere nel tempo.

Ho incontrato Guglielmo nel suo laboratorio-studio di Milano. Questo è quello che ci siamo detti.


Equilibrium Console, 2016

Vieni da una famiglia di mercanti d’arte, immagino questo ti abbia influenzato nel lavoro.

Sono nato in un contesto familiare in cui la cultura ha sempre avuto un ruolo centrale: il mio lavoro è stato importante soprattutto perché mi ha dato la possibilità e gli stimoli per trovare una strada diversa rispetto alla mia tradizione famigliare. Amo le discipline artistiche ma ho capito che ero meno interessato alle tematiche proposte da questa disciplina e più coinvolto dal mondo dell’architettura e del design. Oggi ho come figure di riferimento soprattutto architetti. Trovo la mescolanza tra arte e design-architettura talvolta pericolosa, può arricchire ma allo stesso tempo anche essere fuorviante: queste discipline devono restare separate. Tracciare dei confini è necessario.

Quindi distinzione tra arte e mondo del progetto?

Credo che si faccia progetto anche quando si fa arte, ma le due discipline hanno interlocutori differenti e soprattutto fini diversi. Progetto partendo sempre dall’idea di un gesto strutturale puro, attorno al quale viene realizzato il resto: è nel risolvere questo tipo di questioni che si può trovare un senso comune nelle cose che realizzo. Il mio lavoro non ha fini speculativi, anzi il mio obiettivo è che i miei oggetti si possano spiegare da soli, grazie alla propria onestà formale.

Questo modo di pensare non è molto in linea con la scuola olandese dalla quale vieni.

Sì è vero. La concettualizzazione rimane fondamentale nell’imprinting di Eindhoven. Ma anche Eindhoven sta cambiando molto su questo tema. Oggi puoi sperimentare avvicinandoti alla speculazione artistica ma tenendo come riferimento sempre la disciplina del design. Continuo comunque ad apprezzare molto la capacità di alcuni designer di sperimentare avvicinandosi all’arte: questo approccio mi ha sicuramente aiutato ad ampliare le mie prospettive.

MM8 Table, Desalto, 2019

Ami molto Ron Gilad: anche lui è però poco “olandese” nel suo modo di lavorare.

Ron Gilad dopo averlo incontrato durante un workshop a Boisbuchet è diventato per me un punto di riferimento soprattutto i primi anni. Appena arrivato ad Eindhoven ho scoperto con sorpresa che in pochi conoscevano il suo lavoro. Questo mi è servito molto: ho capito quanto l’Italia fosse un paese autoreferenziale. In Olanda pochi seguivano quello che succedeva da noi, mentre all’epoca pensavo ingenuamente che quello italiano fosse l’unico modo possibile di intendere il design: mi sbagliavo.

Non è che a Eindhoven c’è forse anche un po’ di astio nei confronti del design italiano?

C’è stima per la storia del design italiano, ma c’è un’avversione verso il progetto contemporaneo quando questo è chiuso in sé stesso. Credo però sia un’ostilità positiva: lì ho maturato l’idea che è necessario avere delle frizioni per riuscire a produrre innovazione.
Il mondo del progetto olandese poggia le sue basi sulla cultura calvinista, sull’idea che nella bellezza sia racchiuso qualcosa di malefico o quantomeno negativo: una continua disputa tra forma e contenuto. Questo mi ha creato molte difficoltà all’inizio, ma nel tempo mi ha obbligato a guardare con più senso critico e maggiore profondità il mio lavoro.
Il mio focus sugli aspetti più costruttivi del progetto non cerca la forma fine a sé stessa, però rimane distante dalla ricerca concettuale. Ricordo che a Eindhoven per la mia proposta di tesi realizzai una collezione di oggetti utilizzando un cavo come elemento comune per tenerli in piedi: mi venne chiesto «cosa vuoi dire con questa operazione? Pensi che la gente abbia bisogno di riflettere sul concetto di tensione nella propria quotidianità?». Per me il senso era molto meno articolato, legato alla sfida costruttiva in cui un filo diventava l’elemento strutturale degli oggetti: se toglievo quel filo il pezzo non esisteva più, punto. Non aveva logiche speculative. Oggi sono consapevole che gli elementi costruttivi sono parte integrante del mio modo di progettare e questo lo so grazie al rapporto dialettico che ho avuto con il design olandese.

Lampada da muro, “Helix 1622”, Schloss Hollenegg for Design, 2018


La legittimazione estetica era alla base anche dei prodotti realizzati dai Maestri del design italiano. Ma secondo te esiste ancora un design italiano? E se esiste, che caratteristiche ha?

Sì, il design italiano esiste ancora ed è sempre stato caratterizzato dalla presenza di un rapporto privilegiato con le aziende.
Le aziende in Italia non sono state dei semplici committenti ma delle interlocutrici di pari livello con il designer. Questo dialogo continuo con l’industria ha portato ad un modo di progettare completamente diverso dagli altri paesi. Se non ci fosse stato questo dialogo continuo, non ci sarebbe stato il design italiano.

Mi dici la differenza tra il modo di insegnare a Eindhoven rispetto all’università italiana?

A Eindhoven chi ti guida è alla ricerca di qualcosa che ancora non c’è: ricordo una frase che mi venne detta: «di solito si fa ricerca con il fine di arrivare ad un design, mentre qui si utilizza il design come strumento per fare ricerca». Eindhoven tende a mettere in discussione la gerarchia ricerca-design: per il metodo olandese il processo creativo non è subordinato al processo razionale. Questo forza ad uscire dalla tua comfort zone: nella mia esperienza, solo grazie a questi salti nel buio si sono realizzati risultati inaspettati. C’è poi una forte volontà di valorizzare i talenti individuali, senza uniformarli secondo un filone di pensiero unico. Le figure che ti guidano, sono sempre disposte a mettersi in gioco nel cercare risposte a domande che ancora devono essere formulate. Lì non ho mai trovato quella sensazione di metodologia calata dall’alto che a volte si respira nel nostro paese. In Italia dobbiamo ancora uccidere i nostri padri, non riusciamo ancora a farlo, ma soprattutto non sappiamo come farlo. Forse abbiamo troppi padri.

Equilibrium Bench, Galleria Rossana Orlandi, 2016

“Padre” importante di tutti noi è stato Enzo Mari. A lui sarebbe piaciuto inventare la palla perché rispettava alla perfezione la sua idea di design. Mi puoi dire un oggetto che rispetta invece il tuo ideale di design?

Mari parla della palla perché è un gioco semplice, economico, democratico. Per me un progetto simbolo è invece la sedia CN° II di Maarten van Severen. Il pezzo è stato messo a punto nel corso di diversi anni all’interno del suo studio: è svincolato da logiche commerciali ma soprattutto figlio di un’esigenza personale. Durante la progettazione, Van Severen non ha guardato al possibile fruitore del prodotto o chi poteva permetterselo, ha rispettato l’intimità della propria pancia, assecondandola. Solo sei anni dopo il CEO di Vitra, ha riconosciuto la qualità della sedia e ha deciso di produrla facendo nascere la sedia .03.
Anche per me l’idea di progetto nasce da una necessità intima e faccio fatica a trovare la spinta ideologica di un Enzo Mari.

Equilibrium Stool, Galleria Rossana Orlandi, 2016

Il tuoi pezzi tendono sempre a cercare un archetipo, un tipo di forma che aspira a durare nel tempo, molto lontana dall’idea di moda o allo stile del momento.

Il riferimento all’archetipo nei miei progetti è conseguenza dei miei criteri progettuali. “Archetipo” è la parola chiave per progettare oggetti che possano durare nel tempo. Se dovessi essere estremo nei miei sogni, mi piacerebbe occuparmi di un solo pezzo per ogni tipologia di oggetto: una maniglia, una console, una panca… questo modo di ragionare è conseguente alla mia natura ma è forse la cosa che più mi avvicina all’idea di sostenibilità. L’archetipo, quello è per me un piccolo sogno da seguire.

Grazie Guglielmo.

Grazie a te Tommaso.


In copertina: Gugliemo Poletti fotografato da Emanuele Zamponi.

Equilibrium Chair, Galleria Rossana Orlandi, 2018
Segments, Decoratori Bassanesi, 2018
Equilibrium Round Table, Galleria Rossana Orlandi, 2017
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