Classe 1970 e di base a San Francisco, California, l’artista americano Tucker Nichols è ancora relativamente poco noto al pubblico italiano. Dei suoi tanti lavori — tra libri, sculture, performance, illustrazioni pubblicate su prestigiose riviste culturali come il New Yorker, McSweeney’s, The Thing Quarterly e sulle pagine del New York Times — in Italia è finora uscito solo un libro illustrato, Alfredo Quasitutto, pubblicato dalla casa editrice Il Castoro e opera di Nichols insieme a suo fratello Jon, scrittore e musicista.
Quando aveva 28 anni, a Nichols venne diagnosticato il morbo di Crohn, una malattia autoimmune attualmente incurabile. Oltre ad avere brutti crisi, da quasi vent’anni l’artista si reca ogni due mesi in un centro medico di San Francisco a ricevere flebo di un farmaco — l’Infliximab — utilizzato per evitare il ripetersi dei sintomi. Nel medesimo centro in cui è in cura lui ci sono molte altre persone: «Sono molto più malate di me» spiega Nichols. «Stanno ricevendo una qualche forma di chemioterapia con farmaci che suonano come parole di una lingua futura. Presumo che la maggior parte delle persone abbia a che fare con il cancro, ma non posso dire quali parti del corpo siano colpite. Quello che posso vedere è che tutti stanno combattendo. Combattono con le loro parrucche, con i loro cappelli invernali fuori stagione, con l’aiuto dei loro amici o mamme o figlie. La maggior parte delle persone combatte da sola. Stanno combattendo per la loro vita, mentre io sto principalmente lottando per la mia qualità della vita. Tuttavia, è bello farlo insieme, anche se raramente scambiamo qualche parola».
Abituato ad avere a che fare con la sofferenza, sua e di chi lo circonda, Nichols si è reso conto per esperienza personale che — quando qualcuno che amiamo sta male — non sappiamo cosa dire. «Peggio ancora» aggiunge, «quando non sappiamo cosa dire tendiamo a dire cose che non fanno che aumentare il fardello».
A offrire un’alternativa, secondo lui, ci sono i fiori. Messaggeri silenziosi che possono avere mille significati diversi ma che, tutto sommato, «comunicano ciò che conta davvero: sono qui».
Di fiori Nichols ne ha dipinti qualche anno fa per l’UCSF Hospital Children’s Infusion Center, un centro in cui vanno i piccoli pazienti a ricevere le flebo coi loro medicinali. E quand’è scoppiata la pandemia — che per chi ha immunodeficienze è spesso una condanna a morte — l’artista ha pensato di lanciare un progetto che si chiama Flowers For Sick People, che si sviluppa in due differenti direzioni, entrambe tanto semplici quanto poetiche.
La prima è Flowers For, una raccolta di dipinti floreali che Nichols realizza e dedica a immaginari destinatari: operatori e operatrici sanitarie, mamme single, adolescenti chiusз in casa, persone sole, persone che vivono in strada, insegnanti che si vaccinano, chi prova rabbia e dolore, chi sa sorridere con lo sguardo.
Non mancano l’ironia, l’autoironia e i richiami all’attualità, come i fiori per George Floyd o i molti che lanciano più o meno sottili stoccate a Trump.
Quella che è ormai diventata una nutrita galleria floreale è anche il perfetto riassunto delle luci e delle ombre della nostra società.
La seconda parte è invece Send Flowers, un vero e proprio servizio che Nichols offre. Se si conosce qualcuno che sta male, lui gli/le invierà un piccolo dipinto originale («ma, per favore, abbiate pazienza — spiega — dato che sono da solo a portare avanti questa operazione»).
Recentemente in esposizione al MoMA di San Francisco, il progetto si può ammirare anche su Instagram.
«C’è qualcosa nei fiori — anche se sono vistosi o ti fanno starnutire o non vengono quasi notati — che a volte può fare un minuscolo buco nel muro di isolamento che separa le persone malate dai loro cari. Flowers for Sick People è il mio modo di guardare alla malattia mentre cerco di capire come gli esseri umani lottino per connettersi tra loro nei momenti difficili», spiega l’artista.

(copyright e courtesy: Tucker Nichols)