Uhuru Republic: un progetto tra Italia e Tanzania, grazie alla musica e al disegno — intervista a Nicola Alessandrini e Lisa Gelli

È dal 2018 che un lungo ponte, impalpabile quanto tenace, collega l’Italia alla Tanzania. È un ponte fatto di suoni e contaminazione, tra popoli e tradizioni differenti, e tra passato e presente. Quel ponte ideale si chiama Uhuru Republic ed un progetto collettivo che ha costruito delle robuste fondamenta su un linguaggio universale che non ha bisogno di traduzioni né dizionari: quello della musica.

Formata da artisti italiani e africani, la “Repubblica di Uhuru” (Uhuru in lingua swahili significa libertà e conoscenza, ma è anche il nome dato alla cima del Kilimangiaro) è nata grazie alle connessioni attivate dall’ambasciatore italiano in Tanzania, Roberto Mengoni, che ha messo in contatto un gruppo di musicisti formato da Giulietta Passera, FiloQ e Raffaele Rebaudengo con alcuni talenti locali. Questa succedeva due anni fa, e quello che iniziò con qualche file sonoro condiviso online tra un continente e l’altro è pian piano diventato un collettivo transnazionale che ha suonato in festival, club e centri culturali tra l’Africa e l’Italia, al contempo andando a comporre le undici tracce raccolte in Welcome to Uhuru Republic, primo disco del gruppo, registrato tra Dar Es Salaam e Zanzibar, in uscita il 20 novembre per La Tempesta Sur, costola dell’etichetta La Tempesta che guarda alle sonorità dei Sud del mondo.

(courtesy: Uhuru Republic)
(courtesy: Uhuru Republic)

Se sono le percussioni e le viole, gli strumenti tradizionali e l’elettronica a disegnare gli intrecci tra culture differenti nei brani dell’album, i legami non riguardano solo la musica e vanno a toccare anche le arti visive. Tra l’agosto e il settembre del 2019, infatti, si sono uniti al viaggio in Tanzania di Passera, FiloQ e Rebaudengo anche due vecchie conoscenze di Frizzifrizzi, Nicola Alessandrini e Lisa Gelli, insieme a un esperto serigrafo come Filippo Basile, co-fondatore dello studio milanese di serigrafia, incisione e risografia Press Press.
Gelli, Alessandrini e Basile hanno organizzato un workshop in un centro artistico e culturale di Dar Es Salaam e lì hanno lavorato fianco a fianco con artiste e artisti della Tanzania, creando tantissimo materiale visivo, utilizzato poi per un mostra e per la copertina del disco.
Quelle immagini andranno anche a far parte di un libro — stampato da Press Press — che, insieme al disco, verrà finanziato attraverso una campagna di crowdfunding lanciata qualche giorno fa, campagna che servirà anche per raccogliere fondi per invitare in residenza artistica in Italia alcuni degli artisti visivi e dei musicisti coinvolti nell’iniziativa.

Per saperne di più sulla parte “visual”, ho fatto qualche domanda a Nicola Alessandrini e Lisa Gelli, entrambi raggiunti al telefono, il primo mentre era appena sceso da un’impalcatura, alla fine di un lavoro su un enorme muro in quel di Modena, la seconda mentre era in macchina e girava tra le colline.

La copertina del singolo “Junga”, opera di Nicola Alessandrini, Lisa Gelli e Filippo Basile (courtesy: Uhuru Republic)
La copertina di “Welcome to Uhuru Republic”, opera di Nicola Alessandrini, Lisa Gelli e Filippo Basile (courtesy: Uhuru Republic)

Cominciamo dall’inizio: come siete stati coinvolti?

Nicola: È stata una cosa totalmente casuale. Tempo fa collaborai con Press Press per una serie di stampe in risografia. Durante un evento i musicisti di Uhuru Republic videro quelle stampe si resero conto di trovarsi davanti a un immaginario affine. Scoprendo poi il progetto Specie Migranti che io e Lisa stiamo portando avanti, guardando i muri che abbiamo fatto in giro per l’Italia, chiesero il nostro contatto.

Da quel primo contatto, poi, è nato un viaggio in Tanzania.

Lisa: Sì, nell’agosto del 2019 io, Nicola e Filippo Basile di Press Press, insieme ai musicisti di Uhuru Republic, siamo andati in Tanzania. Siamo rimasti per circa venti giorni. All’inizio abbiamo girato un po’ per conoscere i posti, siamo stati invitati all’Ongala Music Festival, uno degli eventi musicali più importanti del paese, poi, per circa una settimana abbiamo partecipato a un workshop con artiste e artisti locali.

Il poster del tour al quale hanno partecipato anche gli artisti (courtesy: Uhuru Republic)

Era la prima volta, per voi, in Africa?

Sì. L’impressione che abbiamo avuto è difficile da spiegare. È tutto un po’ strano e un po’ nuovo. L’europeo che arriva in Africa solitamente lo fa per il classico viaggio turistico, come da cliché — safari, ecc. Oppure c’è chi va per scopi umanitari, e lavora in contatto con situazioni veramente difficili.
Nel nostro caso si è trattato di qualcosa di completamente diverso. Siamo andati a lavorare in un centro di produzione artistica a Dar Es Salaam, il Nafasi Art Space, e siamo stati in mezzo alla gente, ad altri artisti.

Ogni giorno della trasferta eravamo impegnati tra viaggi, musica, situazioni a metà tra lavoro e vacanza e poi una settimana di workshop da mattina a sera. È stato intenso.

Siete partiti con le idee chiare su quello che avreste trovato? Avevate già in testa un progetto già pronto?

Siamo partiti conoscendo un po’ quello che facevano gli artisti tanzaniani, e avendo chiaro l’obiettivo dei musicisti, cioè realizzare un disco con un supporto di immagini a corredo.
Sulla base di queste informazioni abbiamo costruito il workshop.
Con Filippo di Press Press ci conosciamo da una vita, grazie ai tanti festival d’arte e autoproduzioni editoriali, ma non avevamo mai lavorato insieme. Solo Nicola aveva già stampato quei poster che poi sono stati la miccia da cui è nata questa collaborazione con Uhuru Republic.

Opera di Lisa Gelli, Nicola Alessandrini e Filippo Basile (courtesy: Uhuru Republic)
Opera di Lisa Gelli, Nicola Alessandrini e Filippo Basile (courtesy: Uhuru Republic)

Ho letto che durante il workshop avete fatto sessioni di disegno condiviso.

Non siamo andati lì “da maestri” ma per lavorare insieme ad altri artisti. Prima di iniziare non avevamo minimamente idea di cosa aspettarci da questo laboratorio.
Disegnavamo per otto ore al giorno, sette o otto persone insieme. C’erano anime molto diverse, e non solo per la questione noi (europei) e loro (africani). Ciascuno aveva sensibilità, esperienze, “mondi” differenti. C’erano ad esempio una ragazza cui stavano molto a cuore le istanze femministe, un ragazzo che faceva writing, un pittore che proveniva da un villaggio e si portava dietro un immaginario più “istituzionale”.

Filippo Basile durante il workshop presso il Nafasi Art Space (courtesy: Uhuru Republic)

C’era un “regia”?

No, comunicavamo a parole in modo un po’ arrangiato ma il linguaggio principale è diventato il disegno stesso.

La musica, oltre ad aver innescato tutto questo progetto, quanto ha influenzato la parte visiva?

Molto. Prima di partire abbiamo ascoltato i pezzi, i musicisti hanno condiviso con noi le traduzioni, e poi, durante la settimana di laboratorio, abbiamo sempre lavorato con la musica come sottofondo.

Quelli con cui avete lavorato erano artisti già affermati?

Alcuni sì. E lavorando con loro ci siamo resi conto di una cosa molto interessante.
Dietro a ogni segno, dietro a ogni gesto artistico degli artisti africani con cui abbiamo disegnato c’era un significato. Opere che, per i nostri canoni, potrebbero sembrare molto semplici, persino un po’ antiquate, hanno invece dietro pensieri potentissimi: filosofici, politici, a volte ideologici. Fare un tipo di pittura invece che un altro ha un motivo preciso; fare un segno piuttosto che un altro ha dei significati.

La mostra delle opere realizzate durante il workshop (courtesy: Uhuru Republic)
La mostra delle opere realizzate durante il workshop (courtesy: Uhuru Republic)
La mostra delle opere realizzate durante il workshop (courtesy: Uhuru Republic)

E chi guarda — legge — comprende quei significati.

Certo.

In generale il nostro approccio occidentale al lavoro artistico è molto diverso.
Qualsiasi cosa loro facciano, è pregna di significati. Magari anche nel nostro lavoro c’è questa sorta di “vocabolario”, ma è comunque secondario, meno codificato, perché l’istintività e la resa estetica prendono il sopravvento.

Gli artisti africani sapevano già fare serigrafia?

Solo uno dei ragazzi aveva già fatto serigrafia per stampare delle magliette, ma non aveva mai serigrafato utilizzando più di un livello.
Per gli altri era un mondo completamente nuovo.

Ci hanno anche portato in un mercato gigantesco [Kariakoo?], che si estende su diversi quartieri. Lì, una delle ragazze del workshop ci ha condotti su per un palazzone, in uno dei pochi posti che vendevano materiale per la serigrafia.

Una cosa bella è stata che Filippo di Press Press, al termine del workshop, ha lasciato al Nafasi Art Space una serie di telai e di inchiostri, così che loro potessero continuare a usarli.

La mostra delle opere realizzate durante il workshop (courtesy: Uhuru Republic)
La mostra delle opere realizzate durante il workshop (courtesy: Uhuru Republic)
La mostra delle opere realizzate durante il workshop (courtesy: Uhuru Republic)

Gli artisti africani, secondo voi, cosa hanno “preso” da voi?

Ovviamente non posso sapere cosa è rimasto loro di quei giorni. Spero molte cose.
Abbiamo lavorato tantissimo. In una settimana abbiamo prodotto un gran quantità di immagini e preparato un’intera mostra.

E voi? Cosa vi siete “portati a casa” da questa esperienza?

Un senso del segno, del linguaggio, dell’interpretazione politica di ogni cosa che fai.

Moltissimo. Subito dopo il ritorno, io e Nicola abbiamo realizzato un muro a Marzabotto e già lì si vedono le influenze di questo viaggio, come pure nella mostra che abbiamo realizzato a Bologna.

(courtesy: Uhuru Republic)
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