Domitilla Dardi racconta EDIT Napoli e il design editoriale

Per il secondo anno consecutivo, il 16-18 ottobre si terrà EDIT Napoli, la prima fiera italiana che si occupa in specifico di design editoriale. La manifestazione seleziona un gruppo internazionale di artigiani, designer, maker, che insieme stanno ipotizzando sistemi alternativi di progettazione e produzione.

Ho incontrato la storica del design Domitilla Dardi che, insieme all’imprenditrice Emilia Petruccelli, è stata ideatrice e creatrice di questo progetto. Abbiamo fatto una chiacchierata per capire meglio il design indipendente, un tema ancora poco affrontato dalla critica in Italia.


Scaturchio, progetto di Giuliano Andrea dell’Uva, EDIT Napoli 2019. (Foto: Lea Anouchinsky)

Nel manifesto di EDIT Napoli utilizzate il termine “design editoriale”: mi spiegheresti di cosa si tratta?

Sarebbe più semplice farlo comprendere se ci spostassimo nel campo dei libri: una casa editrice si riconosce perché ha un certo piano editoriale, pubblica un certo tipo di collane, propone un certo tipo di narrativa. Lo stesso avviene con il design: l’editore di design è colui che ha in mano l’art direction e segue la produzione del proprio progetto fino alla vendita. Non lo delega ad altri ma lo fa con le sue forze attraverso un controllo diretto, accollandosi direttamente investimenti, ricavi e utili.

Collezione “Lapidea”, di Gaetano Di Gregorio, 2018. (Foto: Roberto Pierucci).

Possiamo tracciare un’identità per capire chi è oggi un designer editoriale?

Il designer editoriale oggi è sia un intellettuale che un professionista, le due cose stanno contemporaneamente insieme: in più è un realizzatore, un produttore e un imprenditore. Questa figura sembrerebbe nuova se noi guardassimo solo alla storia del design del secondo dopoguerra, ma in realtà riprende un modo di intendere il progetto precedente e che in qualche misura è sempre esistito. Il grande artigianato, quello che troviamo nei libri di storia, è sempre stato così. Ti faccio un esempio: Thonet nasce come ebanista, ma diventa la figura storica che conosciamo quando comincia a disegnare i suoi mobili. Si inventa una tecnica per produrli in maniera sempre più efficiente, ha una sua idea precisa di progetto, produzione e distribuzione. Vorrei sottolineare la questione della distribuzione, perché lì c’è il primo punto delicato. Se non hai una visione che arriva fino alla distribuzione sei morto: EDIT Napoli intende dare risposta a questo, ha l’obiettivo di dare una mano nella divulgazione e vendita del design editoriale.

“Sedia n. 14”, di Michael Thonet, 1859.

Oltre alla questione della distribuzione, EDIT Napoli fa un grosso lavoro sulla selezione.

Esatto, questa manifestazione è nata soprattutto grazie ad Emilia Petruccelli, che ha posto un problema: “vado alle design week e ci trovo cose interessanti ma sono tutti prototipi, quindi non li posso ordinare per il mio negozio”. Oppure “seguo le fiere principali per trovare un buon progetto, ma ne devo vedere cento che non mi interessano prima di riuscire a vedere qualcosa legato al design editoriale”. “Se vado alla sezione design di una fiera d’arte (unico ambito che in questo momento ha un approccio curatoriale su questo tipo di produzioni), anche lì, raramente, trovo qualcosa che possa andare bene per il mio pubblico”. È per questo che noi vorremmo dare una risposta alla questione della selezione nell’ambito del design editoriale. Selezionare i progetti e dargli valore.

EDIT Napoli, 2019. (Foto: Roberto Pierucci)

E quali criteri utilizzate?

Valutiamo ovviamente la qualità dei progetti, ma se un potenziale espositore ha realizzato un prototipo che non ha testato non può esporre ad EDIT Napoli, perché di fatto non ha un prodotto. La distinzione tra prototipo e prodotto è per noi fondamentale e dovrebbe essere molto chiara anche a chi produce, eppure questo tema genera molti malintesi. Il nostro lavoro è verificare se quello che ci viene proposto è prima di tutto un prodotto, mentre se è ancora soltanto un prototipo lo scartiamo. Per essere un prodotto deve essere stato realizzato, provato e verificato sia nelle funzionalità che nella produzione.

A sinistra: “Pet Lamp”, di Alvaro Catalán de Ocón, 2011.
A destra: “Libreria da battaglia”, di Duilio Secondo Studio, 2019.

I designer e i produttori indipendenti lavorano in un contesto dove di fatto è presente anche la produzione industriale. Ha però poco senso cercare di giocare una partita con l’azienda: occorre creare altri campionati.

Giusto, e infatti se non si traccia un perimetro all’interno del quale muoversi con una certa chiarezza, si rischia di creare un mercato nel quale si mescola tutto. In questo mescolamento i primi a subirne le conseguenze sono i designer indipendenti, perché non hanno i grandi numeri dell’industria, non hanno il prezzo del mass market, ma soprattutto non hanno un ambito culturale ben definito nel quale confrontarsi. Così diventano fragili e costretti a sopravvivere a fatica. Invece inserirli in un loro contesto li fa diventare fortissimi perché si sostengono a vicenda. Il problema è definire il perimetro di quei designer che producono, trovano spazi di distribuzione e vendono i loro prodotti. Spesso i designer indipendenti vivono in una situazione di isolamento ma l’obiettivo è quello di creare una comunità.
Nel design editoriale c’è un po’ la tendenza a lavorare a testa china sul proprio progetto: EDIT vorrebbe essere un punto di incontro, un modo per uscire dal guscio. Incontrarsi e confrontarsi, dialogare. Quest’anno molti designer, che si sono conosciuti lo scorso anno, si sono uniti e faranno una collezione congiunta e questo mi pare lo spirito giusto.

“Minori Vases”, di Reinaldo Sanguino, 2019. (Foto: Roberto Pierucci).

E quali vantaggi ha il design editoriale rispetto a quello industriale?

Il design editoriale è l’unico vero ambito del design in cui si possa parlare, con una certa onestà intellettuale e senza ipocrisie, di sostenibilità. Se facciamo un parallelo con il campo del food ad esempio, il cibo sostenibile non è il chilometro zero, ma quello che ci fa bene quando lo introduciamo nel corpo, è quello dove c’è una filiera corta, tracciabile, quindi trasparente. Il design d’autore è l’unico che può darti queste due garanzie di trasparenza e tracciabilità.
C’è poi un’altra questione: noi come individui siamo spesso disposti a spendere di più per oggetti che rappresentino un’identità alternativa rispetto a quella degli altri. Differenziarci, riconoscerci in tribù ristrette e non omologanti ha un valore (anche economico), e questo è il vero vantaggio del design editoriale.

Grazie Domitilla.

Grazie a te Tommaso.


EDIT Napoli, 2019. (Foto: Roberto Pierucci)
Dettaglio tappeto, di Andrea Anastasio, 2020. (Foto: Roberto Pierucci)
Collezione “Carabottino”, di Cara / Davide, 2020 (Foto: Matteo Lavazza Seranto)
Caraffa “Alinde”, di Barbara Fischer e Luise Münzner, 2020.
Lampada “Madre”, di Andrea Anastasio, Foscarini, 2019.
Vasi collezione Bodegon, Alvaro Catalán de Ocón, 2000.
editorialista
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