Ho passato circa trent’anni della mia vita senza rendermi conto che non tutti — al netto di chi soffre di discromatopsia (il cosiddetto daltonismo) o della ben più rara acromatopsia (di cui parla Oliver Sacks nel suo L’isola dei senza colore — vediamo i colori allo stesso modo. È non è soltanto una questione biologica, di coni e bastoncelli, che traducono la luce e inviano il messaggio al nervo ottico, o relativa al contesto, come nel celebre “enigma” del vestito bianco e oro o blu e nero sul quale più o meno tutti impazzirono cinque anni fa: è anche una questione culturale, e dipende pure dal nome che diamo alle cose.
Me ne accorsi davanti a una rampa di scale nella casa della madre della mia compagna. Laddove io vedevo una scala inequivocabilmente viola, gli altri attorno a me la trovavano altrettanto indubitabilmente verde. Chi sbagliava? Probabilmente io, ma nessuno mi convincerà mai davvero che quello fosse un verde.
Alcuni colori sono, per così dire, ambigui. Stanno al di fuori delle caselle a cui siamo abituati ad associare un nome chiaro e definito, e sfuggono all’immediata identificazione. Sono un po’ blu e un po’ verdi — ma più blu o più verdi?
O un po’ gialli e un po’ arancioni — ma più l’uno o l’altro?
Un programmatore americano, Leo J. Robinovitch si è chiesto quali fossero le tonalità più “controverse” e, basandosi su un vecchio test cromatico apparso sul web qualche anno fa (per la cronaca: all’epoca lo feci e andai meglio di chi sosteneva che la scala fosse verde), ha messo online il sito Color Controversy, dov’è possibile mettere alla prova la propria percezione e confrontarla con quella degli altri partecipanti.
I risultati del test vanno anche ad aggiornare in tempo reale una classifica delle tinte più ambigue.