Preferirei di no: la campagna di Cheap e Campo Innocente sui muri di Bologna

Nel 1853, due anni dopo il suo capolavoro Moby Dick, Herman Melville scrisse un racconto intitolato Bartleby lo scrivano, considerato uno degli “oggetti” più misteriosi della letteratura mondiale.
La trama è semplice: siamo a New York, Wall Street, in uno studio legale. Il narratore è un avvocato a capo dello studio e un giorno mette un annuncio di lavoro per trovare un altro copista. Arriva Bartleby, una figura «pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida»1. Bartleby svolge il suo lavoro di scrivano ma si rifiuta di fare gli altri compiti che il capo si aspetta da lui. La risposta è sempre una, I prefer not to, «Preferirei di no», con qualche variante nel corso della storia. Alla richiesta di un motivo, Bartleby non dà mai spiegazioni, e via via smette anche di fare il copista. Quel rifiuto fragile, in forma condizionale e con un verbo tutt’altro che definitivo come preferire, mette in crisi non solo i colleghi e il capo, ma tutto il sistema. Mette in crisi il lettore, pure. E la critica, che da decenni dà alla storia le interpretazioni più disparate. «Mette in crisi uno dei baricentri della nostra esistenza di occidentali: l’abitudine», sottolinea Marco Belpoliti su Repubblica.

(foto: Michele Lapini | courtesy: CHEAP)

Nella prospettiva di Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, affidata al saggio Bartleby, la formula della creazione, «la formula I PREFER NOT TO esclude ogni alternativa e inghiotte quel che pretende di conservare non meno di quanto non scarti ogni altra cosa; essa implica che Bartleby cessi di copiare, cioè di riprodurre parole; fa crescere una zona di indeterminazione tale che le parole non si distinguono più, crea il vuoto nel linguaggio. Ma disattiva anche gli atti linguistici con i quali un padrone può comandare, un amico benevolo porre delle domande, una persona fidata promettere. Se Bartleby rifiutasse, potrebbe essere riconosciuto come ribelle o rivoltoso e avere ancora a questo titolo un ruolo sociale. Ma la formula disattiva ogni atto linguistico nello stesso tempo in cui fa di Bartleby un puro escluso al quale nessuna posizione sociale può essere più attribuita. Di questo l’avvocato si accorge con terrore: tutte le sue speranze di riportare Bartleby alla ragione crollano perché riposano su una logica di presupposti, secondo la quale un padrone “si aspetta” di essere obbedito, o un amico benevolo, ascoltato, mentre Bartleby ha inventato una nuova logica, una logica della preferenza, che basta a minare i presupposti del linguaggio».
Non è un caso che il racconto di Melville abbia un posto d’onore nelle biblioteche di tanti anarchici.

(foto: Michele Lapini | courtesy: CHEAP)

Da quel 1853 il preferirei di no è una pagina bianca che non si può riempire in alcun modo, che contiene tutte le possibilità ma non ne tiene traccia. È un muro — leggero, morbido ed elastico, senza il vigore secco del no, eppure ancora più implacabile — sul quale si schiantano la logica dell’efficientismo e della produttività, le gerarchie, l’etica del lavoro, i valori della società, l’autorità, il potere.
Ed è su un muro che di recente è apparso un bartlebiano preferirei di no. Più precisamente sugli spazi di pubblica affissione di via Irnerio, a Bologna, dove sono stati attaccati i manifesti dell’omonima campagna nata dalla collaborazione tra le agitatrici culturali e artiste dell’attacchinaggio di CHEAP e Campo Innocente, che si definisce come «una zona di immaginazione mutevole che raccoglie un raggruppamento di persone — artist*, ricercat*, lavorator* dell’arte dal vivo — che agisce attivando una forma collettiva di dialogo, ponendo l’attenzione sulle questioni della violenza, dell’abilismo, del sessismo, del colonialismo e della precarietà che ancora sopravvivono nel mondo dell’arte».

(foto: Michele Lapini | courtesy: CHEAP)

Nato a giugno 2020, il giorno precedente alla riapertura dei teatri e dei centri per l’arte dal vivo, Campo Innocente si presentato al pubblico con un Kit di pronta emergenza da portare con sé in caso di improvvisa ripartenza del sistema arte e spettacolo in era post-pandemica incarnato in un NO, e una considerazione tanto amara quanto realistica: «Ora che il carbone tornerà a bruciare nella locomotiva e tutto riprenderà come prima, posso immaginare che: alcun_ saranno sedut_ in prima classe, altr_ in seconda e altr_ ancora a inseguire il treno di corsa». Da qui il preferirei di no.

No, non siamo tutt_ sulla stessa barca.
No al silenzio sennò non lavori.
No al lavoro artistico come eccezione.
No al parlare di “lavoro dell’arte” e non di lavoro.
No alla romanticizzazione della precarietà e della violenza in virtù di pratiche artistiche “autentiche”.
No all’esclusività bianca, cisgender, abile, borghese del “mondo dell’arte” italiano.

(foto: Michele Lapini | courtesy: CHEAP)
(foto: Michele Lapini | courtesy: CHEAP)

«Sono una serie di immagini che sottolineano vari “NO” contro dinamiche che non siamo più dispost* ad accettare. Dei “NO” affermativi, che sottolineano una presa di coscienza della realtà in cui viviamo, usando la performatività del linguaggio. Dai canali social allo spazio urbano questi “NO” amplificano un principio di base: “NOn siamo tutt_ sulla stessa barca”, non abbiamo necessità e posizioni uniformi pur abitando lo stesso spazio», spiega il gruppo di Campo Innocente.

In tanti, probabilmente, passeranno accanto a quei NO senza farci caso. Altri guarderanno e non capiranno. Altri ancora scuoteranno la testa e se ne andranno via. Qualcuno ci sputerà sopra. Qualcun altro ci disegnerà un cazzo, perché questo è il modo in cui dice al mondo di esistere. Ci appiccicheranno su volantini di serate e richieste di posti letto in doppia. I più sagaci ne dirotteranno il messaggio intervenendo sul testo. Ma i NO rimarranno lì finché non saranno consumati o ricoperti o staccati. Nel frattempo il messaggio risuonerà in qualche testa, in qualche pensiero. Sarà abbastanza?
Vedremo, intanto alla fine del racconto Bartleby muore in carcere, dopo aver messo in crisi un ufficio, poi un intero palazzo col suo preferirei di no. E noi, dopo più di 150 anni, stiamo ancora qui a parlarne.

(foto: Michele Lapini | courtesy: CHEAP)
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