È con la vista e con l’udito che, generalmente, godiamo delle opere d’arte. Ma quando c’è da discutere sul loro valore, e soprattutto sulla capacità di saperlo apprezzare, allora tiriamo in ballo il gusto.
«Non si può degustare un’opera d’arte come tale, perché il gusto non lascia l’oggetto libero per sé, ma ha a che fare con esso in modo realmente pratico, lo dissolve e lo consuma», scriveva Hegel. Ma il sapere, ci spiega Giorgio Agamben nel suo breve saggio Gusto, deriva etimologicamente dal sapore, «poiché, come il gusto è atto alla distinzione del sapore dei cibi, così il sapiente ha la capacità di conoscere le cose e le loro cause»1.
Il cattivo gusto, come ricordava Gillo Dorfles nel suo fondamentale Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, è quindi anche una questione di mancanza di cultura, di carenza di sapere. Tranne in quei casi in cui è consapevole, e si eleva a categoria artistica, assai frequentata ed esplorata a partire dal ‘900, da Dalì a Warhol, da Ontani a Jeff Koons, fino ai tanti, tantissimi collezionisti che alla paccottiglia, per il semplice fatto di collezionarla, danno dignità, stendendoci sopra una mano di vernice invisibile ma dal valore incalcolabile — la vernice della scelta cosciente.
Oggi quegli stessi strati di vernice invisibile si sono moltiplicati. Sono i livelli di ironia — gli ultracitati layers — che rendono labirintico il processo di interpretazione di un’opera, tanto che davanti a un’immagine ci si trova a chiedersi se si è davvero compreso ogni strato ironico, a che livello si è arrivati, con la sensazione, talvolta, di essersi smarriti dentro a un tesseratto.
Eppure, al di là dell’affastellarsi di citazioni e interpretazioni possibili, il cattivo gusto mantiene una sua primaria e basilare riconoscibilità. Ed è questo, dopotutto, che ci attrae irresistibilmente.
Il dozzinale, il kitsch, il barocco, l’antiestetico, l’eccessivo solleticano la parte di noi che vorrebbe assaggiare, consumare, godere di quel nauseante sapore al quale la rivista di fotografia Yogurt Magazine dedicherà il prossimo numero, anzi, sapore. Sì perché le uscite di questo semestrale splendidamente curato dal fondatore Francesco Rombaldi, con Luigi Cecconi in veste di vicedirettore e researcher, chiama ogni uscita flavour.
E se in passato hanno dato alle stampe il sapore di Antimateria e quello della Quarantena, ora è appunto la volta del cattivo gusto.
«Il BAD TASTE flavour è una provocazione metalinguistica. Dove si presume che la fotografia catturi il bello e sublimi il mediocre, la nuova call di Yogurt Magazine chiede di rappresentare il cattivo gusto. Il BAD TASTE flavour vuole essere un’ouverture di dispetti estetici, una celebrazione del kitsch, del grottesco. Vuole porre un crudele focus sul malcostume, sulle cattive abitudini, sugli eccessi e le anomalie disturbanti di una società ipertrofica, nauseata e, a volte, nauseante. Con questo flavour di Yogurt speriamo di compiere un esorcismo, dove l’estetica del cattivo gusto, nel suo sofisticarsi, vada a rendersi più accettabile, o perché no, necessaria», scrivono.
La call per partecipare ed essere pubblicati è aperta fino al 15 novembre 2020.