Pieni e vuoti come luci e ombre: la tesi di Federico Fusetti sulla concezione del vuoto tra Oriente e Occidente

I grandi eventi — quelli cruciali, che dirottano i percorsi di vita di molti, modificano le abitudini e ribaltano i paradigmi — non sono soltanto fenomeni che scavano un solco profondo tra il prima e il dopo, ma agiscono anche a mo’ di lente che si sovrappone alla realtà e la distorce, esattamente come una massa che è capace di piegare lo spazio-tempo.
Così la pandemia, nella quale ci stiamo muovendo da mesi, attraversando le varie fasi con l’incertezza di chi non sa quale sarà la prossima, è diventata un grande attrattore che tutto attira a sé — la politica, l’economia, la cultura — polarizzando e a lungo monopolizzando il discorso pubblico. Anche ciò che non è direttamente causa o conseguenza delle situazione, ne subisce comunque gli effetti: il punto di vista si sposta, i concetti cadono sotto una nuova luce. E anche un tema senza tempo, come quello del dualismo pieno/vuoto, acquista ulteriori significati.

Proprio per questo giudico particolarmente interessante il progetto di tesi di Federico Fusetti, giovane illustratore e stampatore che ha da poco conseguito il Diploma Accademico di Secondo Livello in Edizioni e Illustrazione per la Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Urbino.
La sua ricerca verteva proprio sul vuoto, e sulla differente concezione che di esso abbiamo in Occidente rispetto all’Oriente.

«Pieni e vuoti come Luci e ombre, discussa nell’era del coronavirus, non si è confrontata con questa realtà nell’elaborazione e nella stesura dei suoi contenuti. Il condizionamento è stato successivo: mentre attendevo di poter discutere online la mia ricerca rintracciavo nell’incessante cronaca quotidiana termini che conoscevo bene. La metafora del vuoto appariva come una delle immagini più apprezzate dai giornalisti per dipingere la situazione inattesa che ci aveva travolto e che modificava il ritmo cadenzato delle nostre giornate».

Affascinato dalla ricerca in sé e anche dalla prospettiva inedita che questa può offrire in questo momento storico, ho chiesto a Federico di raccontarmi in breve la sua tesi, che ha sviluppato anche attraverso uno splendido lavoro di stampa xilografica.


(courtesy: Federico Fusetti)

Pieni e vuoti come luci e ombre è la tesi sviluppata a completamento del Biennio Specialistico in Edizioni e Illustrazione per la Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Un argomento sterminato e di difficile approccio che ho voluto indagare attraverso un gioco di sfumature, contrapposizioni e sopratutto dialoghi. Da una parte la spinta veniva dall’Horror Vacui che ha sempre contraddistinto la mia espressione, dall’altra la volontà di approfondire una cultura che conoscevo solo marginalmente.

(courtesy: Federico Fusetti)

Il progetto si compone di due momenti distinti, ma complementari: la tesi scrittografica elaborata insieme al relatore prof. Luca Cesari, che ha sapientemente indicato Sentieri interrotti tra Estetica orientale e occidentale come sottotitolo e una ricerca artistica sviluppata nei laboratori dell’Accademia. Il prof. Matteo Fato ha affiancato questo approccio diretto con la materia e credo fermamente che senza un corrispettivo tangibile questa indagine sarebbe stata solo parziale.

Ho deciso di esplorare la concezione del vuoto affiancando alla visione occidentale che vede essenzialmente la vacuità come un contenitore da riempire, un ventaglio di variazioni sul tema, ponendo come interlocutore privilegiato l’Oriente e in particolare il Giappone attraverso il confronto diretto con quelle arti che Giangiorgio Pasqualotto dischiude magistralmente nell’Estetica del Vuoto.

Accanto all’immagine di un itinerario ideale che potesse sondare un ampio spettro di discipline come letteratura, architettura, pittura tradizionale, musica, cinema, arte contemporanea, teatro, ho costituito un apparato iconografico che risultasse quanto più evocativo e non didascalico rispetto a un tema che risiede essenzialmente nell’impalpabilità.

(courtesy: Federico Fusetti)

I capitoli sono addensati attorno a parole chiave, quasi suggestioni volte a indicare la sensibilità del discorso: Incorporeità, Fluidità, Impermanenza sono solo alcune delle espressioni tratteggiate. Questi termini cedono il passo a concetti come Ma, En, trovando nella quotidianità nipponica il vuoto come spazio di possibilità, come luogo di interazione.

(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)

In questo sguardo dualistico sono enfatizzati i contatti tra culture: il soggiorno di Giuseppe Castiglione nella Città proibita conduce a una convivenza delle due concezioni pittoriche, la natura morta europea è alla ricerca del soffio vitale proprio della pittura a inchiostro. Un congiungimento che Leibniz non era riuscito a raggiungere. Heidegger interroga Hisamatsu sull’origine dell’opera d’arte, ritrovandosi nei sentieri erranti dell’Holzwege: quel cuore del bosco che sarà una metafora fondamentale del perdersi per ritrovarsi. La stessa ambientazione accoglie i concerti silenziosi di John Cage che tanto dovette riconoscere negli insegnamenti di Suzuki.

(courtesy: Federico Fusetti)

La dimensione spaziale occupa una posizione centrale della narrazione: lo spazio civico dell’Agorà si ritrova mutato nella spiritualità del santuario di Ise, il Modernismo vede Villa Katsura come luogo di pellegrinaggio per Taut, Gropius, Tange. Dopo il motto di Mies Van der Rohe «Less is more» Ozu utilizza proprio quel dato ambientale come cornici neutrali che saranno la cifra stilistica della sua cinematografia. Arata Isozaki coniuga la tradizione giapponese con i progetti americani, mentre Carlo Scarpa con i suoi moti aerei giunge alla Tomba Brion solo dopo aver compiuto un fondamentale viaggio alla scoperta dell’Asia.

(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)

L’Ikebana, l’Haiku, il teatro Nō, la cerimonia del tè e l’Ukiyo-e si fanno espressioni di una stimolazione multisensoriale, del dominio dell’ombra e di quel vuoto che non è negazione, ma esaltazione della presenza. Junichiro Tanizaki e Kakuzo Okakura si fanno narratori di un Giappone sulla strada per la globalizzazione che stenterà a trattenere le proprie intime sensibilità.

(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)

L’assenza dell’Ebraismo si fa espressione lessicale nell’Alef attraverso la figura del soffio, l’iconoclastia è declinata con grande potere evocativo e immaginifico nell’arte non oggettuale. Il Museo Ebraico di Berlino di Libeskind incarna l’alienazione della Shoah. Frank Lloyd Wright erige un tempio dedicato al vuoto con il Solomon R. Guggenheim Museum di New York.

Infine manifestazioni atmosferiche come la nebbia, la bruma si fanno effetto tangibile di un argomento non figurabile, ma centrale nell’indagine di artisti contemporanei come Hiroshi Sugimoto, Rachel Whiteread, Olafur Eliasson, Doris Salcedo, Hidetoshi Nagasawa.

(courtesy: Federico Fusetti)

Gillo Dorfles si colloca come congiunzione tra il momento di ricerca teorica e quello del progetto artistico, nell’ottica di costituire un equilibrio, di ritrovare l’Intervallo perduto e citando la figura greca del Diastema tanto affine al Ma nipponico, di giungere a uno iato naturale tra gli elementi.

Appunti visivi e riflessioni grafiche racconta il corpus di autori e di opere che ha guidato il percorso verso la realizzazione di tre stampe rilievografiche. Volgendo un’attenzione particolare per la xilografia come territorio di opposizione tra pieni e vuoti, per mezzo di una delle tecniche più grafiche ho tentato di superare questa dicotomia per mezzo di trasparenze e sfumature. Transizioni che dalla fisicità delle matrici in linoleum potessero trovare accomodamento nelle ampie campiture del foglio.

(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)

Uno sguardo attento è stato rivolto al tema fluido come dinamica tessutale, composizione armonica rintracciata nell’opera Hamonshū (Wave Design) di Mori Yūzan del 1903, nelle xilografie giapponesi di Rebecca Salter, nei cicli Ocean dedicati ai flutti da Vija Celmins, nelle stampe a più matrici di Yasu Shibata su disegno di Chuck Close.

Un trittico finale presentato per mezzo di una sintesi centrale e poli opposti laterali, controparte fisica di un viaggio tra le numerose variazioni della vacuità, nel difficile tentativo di attribuire un’espressione visiva al vuoto. Una figura diastematica che si fa comunione di due tensioni contrapposte.

(courtesy: Federico Fusetti)

Il vuoto come molti altri temi discussi nel corso delle tesi online è stato frutto di rielaborazione dopo aver completato la stesura del lavoro. Rileggere quelle pagine in un panorama mutato dagli eventi, dove elementi cardine del discorso come il silenzio venivano affiancati all’assenza di naturalezza modificava il senso della presente ricerca. Eppure credo che le dinamiche spaziali e temporali imposte dal virus non debbano condurre alla condanna di un soggetto neutro e fondamentale. Citando Gillo Dorfles sottolineo che sta proprio nel suo carattere di indeterminatezza la grande importanza di questo elemento, dipende da come si tratta questo vuoto, da come trova espressione:

Il temps perdu attuale è un tempo dove fenomeni socio-antropologici ed estetici s’intrecciano; un tempo divenuto instabile e non proiettabile; un tempo che non può essere ritrovato ma deve semmai essere abbandonato per venire in seguito ri-creato con le dovute spaziature e le dovute pause, che ne permettano la decantazione. E perché ciò avvenga, occorre innanzitutto, che l’uomo recuperi la nozione e la concezione dell’intervallo, presente nei ritmi della natura, nelle stagioni, nei ritmi corporei.

(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
(courtesy: Federico Fusetti)
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