Massimiliano Adami: l’alchimista

In passato il design si è concentrato soprattuto sul disegno, da sempre considerato il campo naturale di ricerca, lo strumento principe del fare progettuale. Nel design contemporaneo questa visione è stata rimessa in discussione: partendo dall’idea che progettare non ha tanto a che fare con la ricerca della “buona forma”, molti designer oggi leggono la disciplina come una riflessione sui sistemi produttivi. Massimiliano Adami è uno di questi, un designer empirico, uno sperimentatore “alchimista” dei processi. Conosce molto bene la chimica, i materiali, le loro capacità fisiche, e ama lavorarci a stretto contatto. Al tavolo da disegno preferisce il laboratorio. Il suo approccio altamente sperimentale lo fa essere vicino al mondo delle gallerie di design e dei pezzi a bassa tiratura.
Adami cerca però anche il rapporto con l’industria, e cerca di portare le sue sperimentazioni all’interno delle diverse realtà produttive con le quali collabora. Alle imprese quasi sempre non propone nuove forme, ma una riflessione sui processi produttivi. Piuttosto che con gli uffici tecnici ama stare nei reparti di produzione e dialogare con gli operai: l’obiettivo non è progettare nuove forme, quanto semmai sperimentare nuovi modi per produrle.

Ci incontriamo a Milano, vicino a Subalterno1, una delle più importanti gallerie promotrici del design indipendente in Italia.


Massimiliano Adami nel suo laboratorio. (Foto: Carlo Furieri Gilbert).

Il secolo scorso ci ha insegnato a definire la forma partendo dal disegno: un buon disegno equivaleva ad una buona forma. Però i tuoi oggetti sembrano il risultato di un esperimento che fai tu fisicamente.

Sì, è così, per me pensiero e mano vanno sempre insieme: il disegno viene dopo e non è sempre detto che ci sia. Ad esempio Fossili Moderni è un lavoro che poteva venire fuori solo sperimentando con i materiali. Sapevo quello che avrei voluto dire ma non sapevo ancora come: ricordo che presi una lattina dal cestino dell’immondizia e la immersi nel poliuretano liquido. Aspettai che si asciugasse e sezionai il tutto. Nessun disegno mi avrebbe chiarito le idee come invece fece quell’esperienza.

Armadio della collezione Fossili Moderni, 2006. (Foto: Carlo Furieri Gilbert).

Fossili Moderni è stato il lavoro che ha lanciato il tuo modo di intendere il design: sperimentale e speculativo, spesso ai confini con la disciplina artistica.

La mia voleva essere una riflessione su quello che la società produce. Volevo far capire lo sbaglio che la nostra Era industriale ha commesso nell’uso della plastica a discapito dell’ambiente, pur realizzando oggetti provocatoriamente funzionali. Immaginai un archeologo del futuro e il ritrovamento di ciò che produciamo oggi: gli oggetti in plastica. Li ho messi in una situazione statica in modo da attribuirne nuovi valori, trasformandoli da rifiuti ad oggetti che potessero avere nuove funzioni. La cosa che mi ha sorpreso è come questi utensili abbiano un impatto emotivo molto forte in chi li vede, anche a distanza di 15 anni dalla loro nascita.

Consolle della collezione Fossili Moderni, 2006. (Foto: Carlo Furieri Gilbert).

Il tuo modo di fare progetto si confronta con istituzioni che hai praticamente visto nascere, le gallerie di design. Parliamo di piccole organizzazioni che si occupano di trovare, valutare, promuovere e vendere prodotti a bassa tiratura, trattandoli praticamente come oggetti artistici.

Per prima è stata la galleria Moos di New York, che ha in qualche modo iniziato il fenomeno delle gallerie del design contemporaneo. Per me è stata fondamentale, perché proprio lei mi contattò per comprare i primi pezzi. Potei così iniziare la mia ricerca. Per i pochissimi designer che allora lavoravano sulle serie limitate e autoprodotte, la diffusione delle gallerie di design è stata la vetrina migliore per far conoscere il nostro lavoro.
Il direttore dello spazio newyorchese, Murray Moos, fu un avventuriero incredibile, accettò un rischio molto alto nel puntare sui miei lavori: mi diede però la possibilità di avere credibilità in quello che facevo, soprattutto in un mercato difficile e radicato su un sistema tradizionale come quello italiano. Oggi con Andrea Gianni, [direttore della galleria Subalterno1], continuiamo a fare ricerca, accettando spesso il rischio di andare anche al di là della vendibilità o meno dei pezzi.

Unione del poliuretano riciclato con poliuretano liquido.

All’università ci hanno cresciuti con l’idea che “fare design non è fare arte”. Il tuo approccio al design sembra forzare questi confini della disciplina.

Difficile dare una definizione di cos’è design oggi. Esiste una definizione accademica, da dizionario, ma non so se abbia ancora senso. Lavoro spesso applicando princìpi che sono considerati appartenenti alla ricerca artistica, come ad esempio l’utilizzo della manualità o l’unicità del pezzo nella produzione seriale, pur mantenendo tutto questo funzionale ad una idea innovativa di progetto: per me, questo è design. Alla fine una buona opera d’arte è un buon progetto, e viceversa. Dover trovare una definizione alle due discipline trovo sia solo una limitazione.

Il poliuretano è un polimero che ha una vastissima gamma di utilizzi. Tu sei un grande conoscitore di questo materiale.

Il poliuretano lo conosco molto bene per forza di cose. È estremamente affasciante e duttile nella sua capacità di trasformarsi. Il suo utilizzo è finalizzato al senso del progetto per il quale lo uso, credo comunque sia il materiale che rappresenta meglio la contemporaneità: è dappertutto, nel frigorifero, nelle scarpe, nelle auto, è sotto al nostro sedere in questo momento.

La gommapiuma che sta “sotto al nostro sedere in questo momento” è qualcosa che di solito viene nascosto, tu invece hai lavorato per farla venire fuori, per darne una dignità estetica.

Il poliuretano morbido1 è sempre stato nascosto perché considerato qualitativamente poco nobile e povero. Il mio scopo è quello di riutilizzare questo materiale sotto forma di scarto che viene prodotto in quantità inimmaginabili dall’industria dell’imbottito. Ricordo che andavo nelle aziende che fabbricavano cuscini e vedevo montagne di sfriso2. Ho quindi unito il vecchio poliuretano, che sarebbe stato buttato, con poliuretano fresco, così che facesse da collante. L’intenzione era nobilitare un materiale e provare a dargli una seconda vita idealizzando un procedimento produttivo che non produca scarti.

Collezione Gommapiuma Decor, 2007. (Foto: Emanuele Zamponi).

Hai reso visibile la gommapiuma, un materiale che di solito non ha valore estetico. Anche con il progetto Beside mostri quello che di solito viene nascosto.

Esatto, il principio è stato lo stesso. Ceramiche Refin è un’azienda super strutturata con un ciclo produttivo veramente grande e quindi, per forza di cose, rigido: con questo progetto si è messa in gioco per vedere di sperimentare nuove soluzioni. Anche in questo caso l’idea iniziale era stata quella di utilizzare materiale di scarto. Il nostro obiettivo era poter utilizzare le piastrelle difettate o di seconda scelta invece che buttarle o lasciarle nei depositi a cielo aperto: decidemmo allora di applicare la smaltatura nella parte considerata meno nobile, quella che di solito viene appoggiata al muro e viene nascosta. Insomma, alla fine, come dici tu, abbiamo “mostrato quello che di solito viene nascosto”.

Piastrelle, collezione Beside, prodotte da Ceramiche Refin, 2011.

Anche per il progetto Alba vai ad intervenire sul processo produttivo. La tua riflessione non è stata quella di inventare una nuova forma e quindi un costoso nuovo stampo, ma di andare a lavorare su come produrre diversamente.

Quando arrivai in questa azienda si faceva la classica produzione a stampaggio rotazionale: si metteva il composto, si aspettava un quarto d’ora e si otteneva un prodotto sempre uguale e monocolore. Mi confrontai con gli operai e i tecnici dell’azienda: decisi di mantenere i colori e gli stampi che già possedevano, così da limitare i costi. Provai a lavorare esclusivamente sul processo di stampaggio. Suggerii di modificare il verso di rotazione del braccio che sorregge lo stampo, e venne frazionata la fase di colorazione in due o più fasi così da ottenere dei vasi non più monocolore ma con delle sfumature. Con questo nuovo sistema ogni prodotto è unico e l’operaio che lo lavora è autore dei pezzi che vengono realizzati: sta a lui decidere quali colorazioni utilizzare e come, è lui l’artista.

Vasi Alba, produzione Serralunga, 2013.

Anche in questo caso non hai lavorato sul disegno.

Già ma è uno stratagemma: quando riesci ad avere un incontro con un’azienda proporre solo delle forme è un terno al lotto, dare stimoli invece, mi è risultato sempre più proficuo, anche se rischioso. Quando lavoro con le aziende mi interessa poco lavorare sul disegno del pezzo, trovo molto più importante cercare di intervenire sulla staticità del sistema produttivo, per cercare di produrre con meno impiego di energia, di risorse, di materia, risparmiando e valorizzando il capitale umano. Quello della sperimentazione è sempre stato l’ambito in cui mi sono sentito più a mio agio, ho cercato quindi di fare ricerca nelle imprese, lavorando più sui processi che sulle forme.

Vasi in resina, collezione Splash, autoproduzione, 2015.

Questo tuo modo di procedere porta l’azienda ad un livello di sperimentazione molto elevato, ma non è facile oggi trovare industrie disposte ad un approccio sperimentale. Eppure non è sempre stato così: l’industria, soprattutto quella italiana, è diventata grande grazie alla sua incredibile disponibilità a sperimentare nuovi linguaggi e nuovi materiali.

Oggi le aziende accettano di sperimentare nuovi modelli produttivi se questo non implica degli investimenti. Le aziende non hanno più un grande entusiasmo nei confronti della sperimentazione e a volte vedono il designer che bussa alla loro porta come un rompiscatole. E spesso ho trovato più freni e perplessità da parte dei quadri e dei responsabili aziendali piuttosto che dagli operai della produzione: erano spesso loro interessati a modificare quello che facevano sempre uguale da una vita.

Allora che consiglio daresti oggi ad un imprenditore di un’azienda italiana?

Gli direi una sola parola, qualità. È un termine difficile da definire: cos’è la qualità? Dove sta la qualità in un progetto? Io stesso trovo difficile rispondere precisamente, ma credo che sia il valore che dovremmo cercare di perseguire tutti insieme. Se l’azienda rimane statica ad inseguire quello che fanno le sue concorrenti ecco che questo è un modo miope di rincorrere il mercato. Le imprese italiane sono diventate importanti grazie ad imprenditori convinti che il cambiamento della società dipendesse anche e soprattutto dalla qualità progettuale. Dobbiamo oggi inseguire la qualità, e non il mercato.

E con la parola qualità credo che abbiamo finito. Grazie Massimiliano.

Grazie a te Tommaso.

Tavolino Girella, 2018. (Foto: Emanuele Zamponi).
Ciotola in stampo rotante, collezione Vortici, autoproduzione, 2015.
Piastrelle Terraviva, prodotte da Ceramiche Refin, 2011.
editorialista
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