La vita come arte: gli abiti di Daniel Lismore

Nasciamo nudi e moriamo — di solito — vestiti, e la gran parte della nostra vita la passiamo a coprirci, comunicando e costruendo ciò che siamo anche (talvolta principalmente) attraverso l’abbigliamento, rinnovando più o meno spesso il guardaroba, abbinando e ricombinando, seguendo i nostri mutamenti esteriori e quelli interiori oltre che — consapevolmente o meno — quelli della società, dell’estetica, degli immaginari.

Visto che la condizione naturale dell’essere umano è la nudità, è quanto meno paradossale che è anche attraverso ciò che ci mettiamo addosso che esprimiamo la nostra libertà.
Chi è che non sceglie i propri vestiti? I bambini, che non ne hanno coscienza e potere; gli anziani, quando non ne hanno più la forza; alcuni disabili, perché chi produce abiti e accessori rarissimamente pensa a loro; chi non può permettersi economicamente di scegliere; chi vive in paesi in cui il controllo politico e/o religioso sulla vita privata è soverchiante; i prigionieri e — in parte (ma qui il discorso sarebbe lungo) — chiunque debba indossare divise e uniformi.

(foto: Frizzifrizzi)
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La possibilità di conciarsi come si vuole è la cartina al tornasole di una società con un certo grado di libertà, perlomeno apparente. E chi prova a controllare il modo in cui ci si veste, in realtà sta provando a esercitare il proprio potere sui corpi e sulle menti. La storia è piena di esempi, e non serve spostarsi nei regimi totalitari: dalla minigonna, negli anni ’60, al reggiseno di Carola Rackete.
Poi, certo, ci sono le convenzioni sociali. Perché ad esempio non c’è nessuna legge che vieti a me — cisessuale italiano quarantenne che lavora in proprio e non ha dress code ai quali doversi uniformare — di andare a prendere mia figlia a scuola con indosso una gonna, ma farlo al di fuori di quei momenti in cui mettersi una maschera è consentito e, anzi, incoraggiato, tipo il Carnevale o, negli ultimi anni, Halloween, sarebbe giudicato stravagante, quando non sconveniente, deviante, pericoloso.

I veri alfieri, nello smascherare (letteralmente) l’ipocrisia di una sbandierata libertà che però, in realtà, non sussiste, sono coloro che davvero si vestono come vogliono e come si sentono. Quelli solitamente etichettati come eccentrici, pazzi, freak, esibizionisti. O, nel migliore dei casi, artisti. Come Daniel Lismore, che sull’arte del vestire ha costruito la sua carriera, diventando una vera e propria icona: eccentrico, pazzo, freak, esibizionista è ciò che si legge negli sguardi di chi, al di fuori dei luoghi deputati all’arte, quindi negli spazi del vivere quotidiano — la via di una città, il tavolo di un ristorante, il corridoio di un albergo — si trova davanti l’imponente figura di questo ragazzone inglese che da anni ha deciso di essere lui stesso la sua opera d’arte.

(foto: Frizzifrizzi)

Ex modello, classe 1984, Lismore è cresciuto in un paesino con due genitori mercanti d’antiquariato. Spesso vittima di bullismo, si rifugiava nella fantascienza, nella cultura pop e negli immaginari surreali del fotografo David Lachapelle.
Quando si trasferì a Londra, appena diciassettenne si tuffò nella vita notturna e nel mondo della moda, diventando una delle figure più conosciute nei club della capitale, attorniato da personaggi famosi e celebrato per la sua capacità trascendentale nel vestirsi abbinando decine e decine di elementi differenti e dissonanti in un insieme per il quale scarseggiano i termini per descriverlo.

Stylist, direttore creativo, fondatore, nel 2012, del marchio Sorapol insieme al suo amico Sorapol Chawaphatnakul, Lismore oggi vive ogni giorno della sua vita come un’opera d’arte, al motto di «Be yourself, everyone else is already taken», che è anche il titolo della sua monografia, pubblicata da Skira Rizzoli, e della sua grande mostra personale, che dal 2016 viaggia per il mondo: Atlanta, Art Basel, Reykjavík e ora Napoli, dove ho avuto modo di incontrare l’artista e vedere, in una esposizione organizzata dall’Accademia della Moda di Napoli, splendidamente curata dalla mia amica Nunzia Garoffolo e ospitata, fino al 1° agosto, presso il Pan – Palazzo della arti Napoli.

(foto: Frizzifrizzi)

Ispirata al celebre Esercito di terracotta, l’installazione di Lismore è costituita da 40 look indossati da altrettante figure a immagine e somiglianza dell’artista, tanto che si fa quasi fatica a riconoscerlo quando è in mezzo ai suoi “replicanti”, sui quali, strato su strato, capi e accessori di alta moda si affiancano a paccottiglia da due soldi, ricordi del passato, regali che arrivano da lontano, elementi creati ad hoc, armi antiche e armature, gioielli, piume, per un totale di migliaia di pezzi, assemblati in ore di lavoro.

«Il vestirmi non è stile, ma architettura. Dispongo di una base e costruisco l’esterno, uso la gravità, il colore, le texture, le forme ed estendo la percezione del mondo che mi circonda attraverso un’idea del momento, o mi affido all’istinto», ha raccontato Lismore in un’intervista uscita su Marie Claire.

(foto: Frizzifrizzi)

La mia impressione, girando tra i manichini, con l’artista a raccontare una a una le sue creazioni, è stata di trovarmi davanti a delle wunderkammer in formato abito: molti dei pezzi hanno dietro una storia, e sarebbe stato bello — ho pensato, nel mio delirio catalogatorio — poter fare un’esperienza più immersiva della mostra. Ci vorrebbero anni, me ne rendo conto, ma se si riuscisse a sfruttare le potenzialità della realtà aumentata per poter scoprire meglio ogni singolo pezzo — da dove arriva, perché — allora diventerebbe un progetto ancora più straordinario.

Piccola nota finale: all’esposizione di Lismore è abbinata una mostra di opere realizzate dagli studenti dell’Accademia. Si intitola Inclusion, ruota appunto attorno al tema dell’inclusione e dell’accettazione delle diversità, ed è molto interessante.

(foto: Frizzifrizzi)
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co-fondatore e direttore
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