Matteo Cibic

Matteo Cibic: non ho il mito dei Maestri

Una delle peculiarità del design italiano è stata quella di aver trovato dei linguaggi credibili, alternativi ai principi razionalisti del secondo dopoguerra. Questa strada di emancipazione ebbe la sua esplosione a metà degli anni Sessanta con la contestazione portata avanti dai movimenti Radical. Proseguì negli anni Ottanta con esperienze di gruppi come Alchimia e Memphis, ma fu negli anni Novanta che questo filone divenne non solo un fenomeno culturale, ma anche un grandissimo successo commerciale: in quegli anni furono particolarmente influenti designer italiani come Stefano Giovannoni e Guido Venturini, o stranieri come Philippe Starck. Ognuna di queste esperienze e personalità ebbe un’identità linguistica propria, c’era però un principio di base che accomunava tutti e che potremmo così sintetizzare: l’idea razionalista della funzione non è centrale nel progetto, fondamentale è invece il valore semantico, espressivo ed emotivo degli oggetti.

Il linguaggio di Matteo Cibic è la continuazione di questo filone. I suoi prodotti hanno il principale scopo di dare emozioni, creare empatia con il fruitore e poco importa se svolgono o meno una funzione pratica. Cibic crea così un mondo di oggetti animati, antropomorfi, perché renderli vivi è il modo migliore per creare un legame con gli esseri umani.
Utilizza finiture di pregio, decori, lavorazioni artigianali di altissimo livello e posiziona la disciplina del design nell’ambito del lusso. È in perfetta antitesi con l’idea efficientista e democratica del design post-Bauhaus. Facciamo attenzione però, il suo approccio al progetto non ha fini politici o di contrapposizione con le vecchie scuole. Rivendica semmai il diritto di fare progetti disimpegnati per il semplice fatto che si diverte nel farlo. Il suo è un design intuitivo e post-ideologico, e proprio per questo un importante punto di vista sulla contemporaneità.

Con Matteo ci incontriamo nel suo spazio-laboratorio, in un grande palazzo settecentesco nel pieno centro di Vicenza. Appena entrato riconosco i suoi mobili e le tipiche ceramiche con smalti metallici. Sui tavoli ci sono stoffe, pelli, barattoli di colla e materiali di vario genere. Ci sediamo in una grande sala riunioni completamente affrescata: sul camino in marmo sono appoggiati due grandi quadri con la scritta “I WANT YOU NOW”.


Matteo Cibic nel suo studio. (Foto: Michela Voglino).

Al design ci sei arrivato attraverso l’arte contemporanea.

Esatto, alla fine degli anni Novanta sono andato a studiare in Inghilterra, avevo sedici anni. In quel momento Londra era un centro artistico incredibile. Emergevano nuovi giovani artisti come Damien Hirst, Ron Mueck, Sarah Lucas, ma anche Cattelan, i fratelli Chapman e molti altri. Di sera facevo il lavapiatti, ma tutti i weekend liberi andavo a vedere mostre e gallerie di ogni genere.

Non l’hai citato perché non è propriamente cresciuto a Londra, ma nei tuoi lavori è chiara anche l’influenza di Jeff Koons.

Assolutamente. Scoprire Jeff Koons è stato per me molto importante. Assieme alle esperienze inglesi mi ha fatto capire un linguaggio nuovo, che definisco luxury-fun, un lusso che cerca di essere giocoso, disimpegnato, allegro. Grazie a queste esperienze ho capito che è possibile una strada diversa, alternativa alla produzione di oggetti seri, che spesso utilizzano linguaggi minimali. Oggi lavoro con l’idea che se bisogna fare le cose, meglio farle divertendosi e facendo divertire la gente.

Installazione “Il paradiso dei sogni”, per Dodo, Salone del mobile 2016.

Il tipo di linguaggio che tu utilizzi è il neokitsch1, un citazionismo consapevole e divertito del kitsch.

Storicamente, quello che rimane è sempre il kitsch. Si pensa spesso sia il contrario, ma non è così. Questo modo di esprimersi, unito alla decorazione, è uno strumento per fuggire dal freddo, è l’esigenza dell’uomo di trovare calore negli oggetti che ha in casa. In alcuni periodi della mia vita ho vissuto in spazi estremamente minimali e mi sono reso conto che, vedendoli tutti i giorni, diventano noiosi, lugubri e pieni di energie negative.

Oltre al neokitsch attui un processo di mitizzazione degli oggetti e questo è tipico del linguaggio Pop.

Per me è importante l’iconizzazione dell’oggetto, più ancora della mitizzazione. Lavoro sempre per figure platoniche, astratte, utopiche: le mie raffigurazioni devono essere estremamente iconiche. Cerco di richiamare i cliché di una storia o di una cultura. Credo sia importante lavorare con gli oggetti iconici perché sono veloci da capire e restano facilmente impressi nella mente.

Vasi “Domsai”, prodotti dagli artigiani di Nove (Bassano del grappa), 2009.

E poi c’è il tema del lusso: gran parte dei tuoi progetti sono a bassa tiratura, realizzati con tecniche di alto artigianato e con materiali costosi.

Secondo me gli oggetti di lusso sono solo quelli che dopo l’acquisto riescono a mantenere lo stesso valore nel tempo. Ad esempio la tecnologia e la moda non li ritengo oggetti di lusso, perché nel momento in cui li compri sono già sorpassati e hanno perso parte del loro valore.
Oggi la durata media di un prodotto è molto bassa: un giocattolo vive dalle dodici alle sedici ore, dopo di che è plastica da buttare. Chi possiede un prodotto progettato da me deve poter stabilire una relazione empatica molto forte, ci si deve affezionare, proprio come se fosse un essere vivente: solo così gli oggetti possono durare, solo così possiamo parlare di “lusso”.

Quindi il lusso contro la logica del consumo veloce della merce?

Esatto, sin dagli anni Trenta i designer hanno lavorato seguendo l’idea di rendere facilmente acquistabili i prodotti delle aziende. Quindi l’idea era quella di produrre oggetti di qualità ma cercando di abbattere al massimo i costi.
Oggi abbiamo un’altro tipo di problema, ci troviamo di fronte ad una produzione di massa di bassa qualità. È la prima volta nella storia che un uomo, se volesse, potrebbe permettersi di comprare una t-shirt al giorno senza problemi: prima questo non sarebbe mai stato possibile. Se vogliamo vederla in modo più consapevole ritengo sia giusto comprare un cappotto a seicento euro, un tavolino a ottocento e così via. Perché se vogliamo iniziare a fare prodotti di qualità, quelli sono i costi e solo così è possibile superare la logica dell’usa e getta.

Collezione di mobili “Vanilla Noir” e lampade “Luce Naga”, per Scarlet Spelendour, 2015. (Foto: Claudia Zalla).

Dal secondo dopoguerra in poi, centrale nel design è stato il tema della funzione. A te questa questione sembra non interessare e sposti semmai l’attenzione sull’esigenza da parte degli oggetti di emozionare.

Gli oggetti avranno sempre minore funzione e saranno sempre più emozionali, perché questo è quello che da sempre cerchiamo: bellezza ed emozioni.
Nei musei di design troviamo oggetti come la Valentine o il primo computer Apple, strumenti bellissimi che ormai hanno perso completamente le loro funzioni. Nessuno li userà mai più, non avrebbe senso: rimangono però per noi importantissimi, perché l’estetica svolge essa stessa una funzione. Esistono e li esponiamo nelle mostre o nelle nostre case, non perché possano ancora funzionare, ma perché ci emozionano.

Pezzo della collezione “Dermapoliesis”, 2017.

Cosa pensi delle figure come i maestri del design italiano?

Non ho il mito dei Maestri, sono per me gente che si è divertita molto. Apprezzo la loro scelta di vita, in fondo è quello che cerco di fare anch’io.

Lampada a sospensione collezione “Pom Pom”, produzione Calligaris Code, 2014.

Che rapporto hai con i clienti?

Io lavoro solo ed esclusivamente con persone che mi stanno simpatiche. Quando ho lavorato con persone che non mi convincevano, è andata sempre male.

Allestimento “The Tile Club”, per Marazzi, 2017.

Il Veneto ha molti difetti, ma è uno straordinario sistema di piccole imprese che possono dare interessanti opportunità ai designer. Me ne parli?

Assolutamente. Ho deciso con la mia compagna di spostarmi da Milano e venire a vivere qui, a Vicenza, perché c’è un tessuto straordinario di piccole e medie aziende. Tutte le mie produzioni, da quelle ceramiche, al legno fino alle sculture speciali, sono fatte tra il vicentino e il bassanese. E così vale anche per quasi tutti i prototipi di cui ho bisogno.
Qui ho trovato delle persone estremamente disponibili, ci sono degli artigiani profondamente innamorati del lavoro che fanno, sempre pronti ad accettare sfide incredibili, anche quelle più strane e assurde. Lavorano anche di notte, il sabato e la domenica pur di arrivare il lunedì mattina con il prototipo realizzato. Il mio è praticamente uno studio diffuso in centinaia di laboratori con cui collaboro quotidianamente. Questo è possibile solo qui, nel nostro Paese, in altre parti del mondo non è fattibile.

Sculture-oggetto del progetto “Nanidor Sound fake Factory”, per Mutaforma, 2018.

Tuo zio, Aldo Cibic, è stato un importantissimo designer, Sottsass lo ritiene essere l’unico suo vero discepolo. E tu, cosa hai acquisito da lui?

Da lui ho imparato l’importanza della ricerca. Nel suo studio investe moltissimo tempo e risorse in progetti sperimentali, col fine di trovare soluzioni architettoniche che attivino relazioni, spesso sfuggendo dalle classiche dinamiche commerciali.
Ha idee borderline, ma il tempo gli dà ragione, a distanza di anni le sue previsioni si rivelano importanti. Ovviamente il nostro modo di procedere è differente: la sua analisi è sempre stata molto legata al sociale. Io sento più mia una ricerca che parte dalle forme espressive dell’arte.

Aldo è stato fortemente influenzato dall’esperienza fatta a metà degli anni Ottanta con Memphis. Anche tu sembri avere sposato in parte quella posizione progettuale.

Memphis pensava a degli oggetti che non si omogenizzassero con lo spazio, che fossero completamente eterogenei rispetto agli ambienti in cui sarebbero stati inseriti. Credo che questa sia stata la loro grande forza rivoluzionaria. Il mio modo di lavorare riprende questa idea, creo oggetti esuberanti e che possano vivere di vita propria.

Collezione di mobili 2014 per Scarlet Spelendour.

Questa tua ricerca progettuale, fortemente estetica, espressiva, eccentrica, affronta però raramente la critica sociale. Perché?

Io credo che la contestazione non sia produttiva: tu puoi ispirare la gente a costruire un elicottero che vada senza benzina, ma non puoi costringerla a non prendere l’aereo per andare in vacanza, o almeno, è molto più difficile. La società è animata dai sogni positivi, e questo anima anche il mercato. L’uomo è fatto per superare le sfide, non per tagliarsi le gambe e soffrire. Possiamo cambiare solo con un atteggiamento proattivo e con una visione positiva del futuro.

Ti distacchi dall’idea pedagogica della disciplina che molti tuoi colleghi hanno.

Tante posizioni sul design e sui Maestri le trovo autocelebrative. Molti discorsi fatti sugli oggetti li vedo poco convincenti.
In fondo il design di mobili ha un grado di incidenza sulla società nullo. Il designer oggi dovrebbe dedicarsi a trovare soluzioni con aziende innovative per diminuire drasticamente il consumo di materie prime vergini, studiare i prodotti al fine di poterli disassemblare e riciclare facilmente, battersi per vietare l’obsolescenza programmata, studiare con pubblicitari e uomini d’affari come trasformare un economia del consumo bulimico in un’economia altrettanto redditizia di contenuti d’altra natura, di trovare una soluzione all’inquinamento provocato dagli aerei e dal nostro piacere di viaggiare, di trovare soluzioni alla siccità e alla plastica che riempie i mari.
Chi oggi trova soluzione a questi problemi, avrà certamente maggiori soddisfazioni economiche e morali, perlomeno rispetto al disegnare un’altra nuova sedia.

Grazie Matteo.

Grazie a te Tommaso.

Ritratto su tappeto della collezione “Intrigue”, per Moret, 2018.
Alcuni vasi della collezione “VasoNaso”, 2016. 
Porta sale e pepe, olio e aceto in vetro soffiato, per Paola C., 2016.
Esposizione presso Palazzo Litta dei tappeti per Jaipur Rugs, Fuori Salone, Milano 2019. L’intera produzione è stata realizzata a mano da esperti artigiani indiani.
editorialista
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