Roberto Conte, Stefano Perego, “Soviet Asia”, FUEL, aprile 2019 (courtesy: FUEL)

Soviet Asia: il modernismo sovietico fotografato da Roberto Conte e Stefano Perego

Quando pensiamo al modernismo sovietico, tendiamo a immaginare un monolitico stile architettonico, diffusosi — rigido e immutato — in ogni angolo dell’ex Unione Sovietica fino al crollo di fine anni ’80 e alla frammentazione dell’enorme territorio in tante repubbliche indipendenti.

In realtà di modernismo sovietico ce n’è stato più d’uno, riflesso dei cambiamenti interni alla politica, all’economia, alla società e alla percezione di sé dell’URSS: dal monumentalismo stalinista alle più futuristiche sperimentazioni della cosiddetta destalinizzazione dell’era-Chruščëv, durante la quale gran parte delle città sovietiche, anche le più periferiche, vennero ripensate tenendo conto dei valori, delle necessità e delle potenzialità (anche utopiche) del regime.

Ciò che oggi rimane è un compatto ma anche variopinto insieme di strutture che diventano tanto più interessanti (sebbene meno conosciute) quanto più ci si allontana dal centro, Mosca, con palazzi che incarnano le ideologie dell’epoca ma lasciano spazio anche ad alcune reinterpretazioni delle culture e delle tradizioni locali.
È questo ciò che emerge — potente — da un libro come Soviet Asia, un’esplorazione delle architetture moderniste sovietiche dell’Asia Centrale, ad opera di due fotografi italiani: Roberto Conte e Stefano Perego.

Roberto Conte, Stefano Perego, “Soviet Asia”, FUEL, aprile 2019
(courtesy: FUEL)

Pubblicato dall’editore britannico FUEL, Soviet Asia è frutto di un grande lavoro di documentazione svolto da Conte e Perego tra Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan.
Sono tantissime le foto presenti nelle 192 pagine del libro, accompagnate da un testo critico dell’architetto e docente Alessandro De Magistris e uno dello storico Marco Buttino.

Per saperne di più sul progetto, ho fatto qualche domanda agli autori.

* * *

Com’è nata questa collaborazione tra voi? Vi conoscevate già prima del progetto?

Ci conosciamo da quasi 15 anni, abbiamo entrambi iniziato a fotografare esplorando inizialmente le rovine industriali attorno a Milano per poi ampliare via via il nostro raggio d’azione ad altri tipi di edifici in abbandono. Siamo stati spesso all’estero insieme, ad esempio con un viaggio tra le rovine della Germania Est nel 2010 (incluse diverse ex basi militari sovietiche). Negli anni abbiamo sviluppato diversi interessi nel campo dell’architettura che abbiamo approfondito insieme e che ci hanno portato a fare altri viaggi.

Monumento a Lenin (1965). Istaravshan, Tajikistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)

Perché l’idea di lavorare sulle architetture del modernismo sovietico?

Si tratta di un tema molto affascinante, sia perché le architetture sviluppate in quel periodo (indicativamente dal 1955 al collasso dell’URSS) sono spesso davvero sorprendenti e uniche, in alcuni casi con un attitudine brutalista e impattante che amiamo interpretare fotograficamente, sia perché molte delle stesse sono poco note.

Come si è sviluppata la fase “sul campo”? Avete fatto un solo viaggio insieme? Diversi viaggi?

Per realizzare le foto di questo libro abbiamo fatto un unico viaggio insieme, nell’autunno del 2017 (un periodo che abbiamo deciso per diversi motivi, operativi ed estetici), ma che è stato il frutto di svariati mesi di preparazione.

Complesso residenziale Aul (1986). Almaty, Kazakistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)

Vi siete documentati prima di partire su quali luoghi andare a visitare?

Assolutamente, abbiamo utilizzato diversi modi per individuare le architetture da fotografare, tra cui libri specializzati di diverso tipo oppure foto satellitari, un lavoro per forza di cose molto lungo ma che ci ha permesso di scoprire luoghi altrimenti difficili da individuare sul posto.

Qualche aneddoto particolare su cose che vi sono successe durante il viaggio?

In un luogo un po’ sperduto nel Tajikistan un poliziotto voleva inizialmente impedirci di fotografare, poi però capendo che eravamo venuti da così lontano ha acconsentito e ci ha addirittura dato un passaggio al paese più vicino con l’auto di alcuni ragazzi del posto: siamo entrati in sei in un’utilitaria minuscola e con i sedili pieni di mele!
Oppure in una dogana uzbeka in un luogo altrettanto isolato abbiamo trovato una guardia appassionata di storie di mafia e di criminalità organizzata italiana che ci teneva a sfoderare tutta la sua conoscenza.
Tutte situazioni un po’ surreali.

Centro espositivo della “Unione degli Artisti Uzbeki” (1974). Tashkent, Uzbekistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)

Come le vivono lì, sul posto, quelle architetture sopravvissute a un’epoca?

Questo è un tema davvero molto complesso. In alcuni casi, dato che si tratta pur sempre di repubbliche diventate indipendenti dopo la caduta dell’Unione Sovietica, questi edifici si ricollegano a un passato in alcuni casi da cancellare (attraverso demolizioni o ristrutturazioni che snaturano completamente questi edifici). Alcuni di questi edifici sono invece diventati dei veri e propri simboli cittadini a cui le persone sono affezionate e che nessuno toccherebbe. In altri luoghi, specialmente ad Almaty, in Kazakistan, dove opera anche l’associazione ArchCode Almaty che ci ha aiutato, sono nate diverse iniziative e progetti per aumentare la consapevolezza dell’eredità architettonica di quel periodo e per tutelarla prima che sia troppo tardi.

Edificio radiotelevisivo (1983). Almaty, Kazakistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)

Secondo voi come mai c’è questo grande interesse verso i resti dell’architettura, del design, della grafica di epoca sovietica?

Per quanto riguarda l’architettura è un interesse cresciuto di pari passo con quello dimostrato nei confronti dell’architettura brutalista occidentale. Spesso è proprio l’utilizzo così esasperato del cemento armato, in Asia Centrale unito agli stilemi decorativi tradizionali, e di progetti assolutamente sorprendenti e in molti casi sperimentali che rappresentano un’impressionante scoperta visiva. A questo si aggiunge il fascino legato al fatto che tutto ciò proviene da un mondo, l’Unione Sovietica, che non esiste più, un fenomeno che si è manifestato anche con una certa attenzione per la grafica della ex DDR (all’interno della più ampia Ostalgie) e per gli spomenik, i monumenti della ex Yugoslavia.
L’architettura realizzata all’epoca era l’espressione di un’idea nuova di Stato, di città, di cittadino, che permeava gli spazi abitativi come gli spazi aggregativi, tra cui circhi o addirittura i palazzi per i rituali (a sostituzione delle chiese). Di fatto, queste architetture sono sopravvissute all’ideologia che le ha prodotte.

Edifici residenziali (1985). Bishkek, Kirghizistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)

Che tipo di lavoro di editing avete fatto?

La nostra idea non era quella di proporre una guida, un manuale o una raccolta completa e organica dell’architettura di quel periodo in Asia Centrale, ma di suggerire un percorso visivo curato. Ragion per cui abbiamo impiegato molto tempo, una volta rientrati, per decidere quali edifici scegliere e quali immagini selezionare. Il resto è arrivato di conseguenza.

Com’è stato lavorare con FUEL?

Ci siamo trovati molto bene sin da quando li abbiamo conosciuti nel loro ufficio di Londra, ormai un anno fa. Da un lato hanno già prodotto diversi volumi legati all’estetica sovietica, tra cui il noto Soviet Bus Stops di Christopher Herwig, a cui sono seguiti molti altri. Dall’altro sono molto attenti agli elementi grafici dei libri che pubblicano, e siamo entusiasti in particolar modo del risultato ottenuto per la copertina di Soviet Asia.

Chorsu Bazaar (1980). Tashkent, Uzbekistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)

Entrambi siete molto attivi e seguiti su Instagram. Come usate il mezzo? Che pro e contro hanno portato alla vostra professione?

Abbiamo iniziato a pubblicare le nostre foto inizialmente su piattaforme come Fotolog o Flickr, per poi passare a Facebook e Instagram, dove pubblichiamo quotidianamente alcuni dei nostri lavori.
Questi strumenti, usati con costanza e proponendo contenuti coerenti, ci hanno portato praticamente solo vantaggi, permettendoci ad esempio di entrare in contatto con diverse realtà difficilmente raggiungibili in altri modi, e allo stesso tempo di creare un tessuto di relazioni con altri utenti, fotografi o ricercatori.

Teatro accademico statale russo per giovani e bambini (ex Palazzo della Cultura AHBK) (1981). Almaty, Kazakistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Hotel Avesto (1984). Dushanbe, Tajikistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Circo (1976). Tashkent, Uzbekistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Hotel Uzbekistan (1974). Tashkent, Uzbekistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Mosaico di Avicenna (1988). Dushanbe, Tajikistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Impianto di produzione di strumenti di perforazione (anni ‘80). Samarcanda, Uzbekistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Hotel Khodzhent (anni ‘70). Chkalovsk, Tajikistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Circo (1976). Bishkek, Kirghizistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Università Nazionale Kazaka Al-Farabi (anni ‘70). Almaty, Kazakhstan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Edificio residenziale (anni ’70). Chkalovsk, Tajikistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
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Edifici residenziali (anni ‘80). Tashkent, Uzbekistan.
Foto: Roberto Conte, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
Hotel Kazakhstan (1977). Almaty, Kazakistan.
Foto: Stefano Perego, da Soviet Asia, pubblicato da FUEL.
(courtesy: FUEL)
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