Te lo spiegano subito. La prima volta che, da bambino o da ragazzino, ti mostrano come si inserisce il rullino nella macchina fotografica, c’è sempre un adulto che avverte: «fai avanzare la pellicola e fai un paio di scatti a vuoto». (Certe volte non specificano quanti, e allora rimani lì col dubbio: ne basterà uno, tre saranno troppi? I piccoli vogliono precisione, ne hanno bisogno. «Sale quanto basta», «Qualche scatto», «Prendine un po’»… Che significa? Dimmi quanto!)
Chiunque usi una fotocamera analogica, quindi, lo sa. Lo sa chi fa la foto, lo sa chi la stampa: il primo scatto è perduto, è un errore insito nel processo stesso, quindi non eliminabile. Dunque non ci si fa caso, è come se non esistesse.
Tale irrilevanza, però, nasconde dentro di sé una certa, poetica importanza. Vista la consapevolezza dell’inutilità di badare al soggetto, all’inquadratura, alla luce, al tempo, all’apertura, al movimento, il primo scatto è il regno della casualità. E, in quanto tale, assume una dimensione “altra”, capace di raccontare sia il soggetto che il fotografo stesso in maniera a volte più significativa rispetto a tutto il resto del rullino.

Lo dimostra un account Instragram come First Of The Roll, che raccoglie appunto solo e soltanto i primi scatti.
Nato a inizio 2016, è, a suo modo, una celebrazione della fotografia analogica attraverso il più negletto e meno approfondito dei suoi aspetti.
È una visione molto affascinante scorrere le centinaia e centinaia di immagini, opera di appassionati e professionisti di tutto il mondo.
Essendo catturate da una parte di pellicola già esposta alla luce, e quindi “bruciata”, le foto sembrano slegarsi dalla loro condizione di testimonianza-della-realtà e sembrano apparire da un altro mondo. Sono come dei piccoli Big Bang: prima il nulla, poi dal bianco si affacciano spazio e tempo.







