Date una matita o un carboncino in mano a Thomas Cian, e lui vi porterà in un altro mondo. Che sia lui stesso a disegnare, o che diriga i suoi allievi durante uno dei tanti corsi di disegno che tiene in giro per l’Italia, l’effetto è potente: straniamento, ribaltamento dei piani di realtà, sospensione del tempo, punti di vista che si intersecano in maniera inaspettata.
Vedere le sue opere prendere forma su carta è un’esperienza. E lo è ancora di più assistere alle sue lezioni, come mi è capitato di fare qualche mese fa, durante Paw Chew Go, sperimentando, dal di fuori, un’esperienza collettiva fatta di silenzi, osservazioni attente, precisione, e tante piccole ma ben visibili estasi creative che coinvolgevano e sconvolgevano chi disegnava sotto la guida di Thomas, un artista e un maestro capace di creare, anche nella cornice caotica di un festival, vere e proprie isole di tranquillità, dove il semplice atto del disegnare assomiglia a una meditazione.
Dopo aver visto, alcuni giorni addietro, una sua nuova serie di lavori, pubblicata su Behance e intitolata The Land of Disillusion, l’ho contattato immediatamente.
La serie — composta da illustrazioni nate combinando ritratti appesi sul muro del suo studio a paesaggi — aveva immediatamente iniziato a far girare gli ingranaggi nella mia testa. «Ogni volta che aggiungo una persona al muro del mio studio, aggiungo un compagno di viaggio. Ogni volta che aggiungo un paesaggio, espando il suo mondo», ha scritto Thomas. Ma io volevo saperne di più. Ciò che ne è nata non è una vera e propria intervista quanto piuttosto una piccola ma densa conversazione che poi, per impegni di entrambi, si è dilatata nel tempo.
Sto cercando di capire qualcosa che non riesco a mettere bene a fuoco, Thomas, e che mi piace tantissimo anche per questo.
Sono rimasto impressionato dalla foto di tutti quei disegni al muro. In pratica realizzi continuamente ritratti che vanno a formare una sorta di folla silenziosa e poi, quando ne hai bisogno o ti senti di farlo, li “espandi” in una tua opera?
Sì, esatto. Ogni volta che faccio un disegno, che sia per un test o che sia semplicemente per il gusto di farlo, entra a far parte del muro. Il muro di conseguenza amplia i suoi orizzonti e si infittisce continuamente, presentando sempre più sfaccettature di se stesso.
Ti faccio un esempio: per ora gli unici animali introdotti sono i cani, ci sono pochissimi alberi, per quanto una foresta ci sia, e ci sono molte automobili in stato di palese abbandono.
A chi li fai i ritratti? Solo a chi conosci o anche, in velocità (ho visto dai video che sei rapidissimo), a gente che vedi in giro?
I ritratti li faccio solo a persone che conosco, generalmente non sono interessato a disegnare qualcuno che non conosco, o quanto meno non per strutturare un lavoro personale di un certo tipo.
Quando sono in giro mi capita spesso di disegnare persone che non conosco, ovviamente, ma è un genere di disegno diverso, con intenti diversi. Ho sempre diviso molto la produzione su sketchbook da quella in studio. Diciamo che ci sono disegni in cui la persona ritratta ha un nome e un cognome, e il mio obbiettivo è quello di evocarla sul foglio, e altri in cui le persone sono solo persone, generi di umani dei quali spesso non disegno nemmeno il volto.
Stessa cosa per i paesaggi e le cose inanimate?
Per quanto riguarda i paesaggi e gli oggetti, tendo a inventarli basandomi sul ricordo che ho della loro struttura, utilizzo spesso fotografie come reference per oggetti specifici o alcuni elementi che potrei inserire in un paesaggio, ma più a livello di studio, non copio la foto come potrei fare con un ritratto. Sento sempre il bisogno di metterci le mani e di prendere decisioni su tutto quello che disegno. Se non lo facessi, non mi sentirei abbastanza vicino alla mia creazione.
La cosa migliore rimane sempre il disegno dal vero, l’osservazione diretta.
Come hai scelto gli abbinamenti in The Land of Disillusion?
Per gli accostamenti sono andato “di pancia”. Immaginavo una persona specifica, immersa in un ambiente piuttosto che in un altro. È stato come attribuire un habitat, un pensiero o un luogo dove vagare, meditare, a ciascuno di loro.
Nella mia testa immagino sempre che le persone che ritraggo siano immerse nei propri pensieri, che stiano meditando su qualcosa di specifico o semplicemente siano andate in fissa in un momento di vuoto mentale, ammesso che esista.
Quello che cerco sempre di trasmettere nei miei ritratti è una forte sensazione di solitudine, quella solitudine in cui ci si trova quando si devono prendere delle decisioni.
Quanto ti ha influenzato/ti influenza la fotografia? Mi pare interessante uno dei commenti che ti hanno lasciato sotto a questa serie: «I get a sort of drawn double exposure effect. Very cool». Effettivamente fa pensare a una doppia esposizione, ma con uno “scatto” un più, quello di una dimensione “altra”. Una dimensione che non saprei dire se sia onirica o se invece vada a scava dentro all’essenza delle persone, per quanto riguarda i ritratti, e nel regno delle possibilità, per ciò che concerne gli elementi inanimati.
La fotografia è quella tecnica che serve per “fermare il tempo” in un preciso istante o in un preciso luogo, tenendo conto di inquadratura ed esposizione. Esattamente come per un fotografo (se escludiamo il fattore tempismo, per avere lo scatto perfetto nel momento perfetto), inquadratura e luce sono per un disegnatore le due cose più importanti. Diciamo che facciamo lo stesso lavoro con mezzi diversi, e che di conseguenza attingiamo gli uni alle esperimenti grafici degli altri.
Ad esempio?
Quello che, a mio avviso, ci ha insegnato esteticamente la fotografia, più di qualsiasi altro metodo di rappresentazione, sono i concetti di sovraesposizione/sottoesposizione, la divisione in piani per distanza focale, con relativa sfocatura, e la deformazione ottica data dallo zoom.
La doppia esposizione è per la fotografia un modo per avere due scatti diversi sulla medesima pellicola andando così a creare una sola immagine. Per un disegnatore è sostanzialmente la stessa cosa, entrambi scelgono di unire due momenti in un unica composizione invece che, a parità di soggetto, cercare di ricreare la stessa composizione in uno scatto solo, cosa tra l’altro praticamente impossibile nella maggior parte dei casi.
In questo modo, talvolta, l’immagine risulta più enigmatica, più ambigua e intrigante, visto che — nel momento in cui due momenti visibilmente non appartenenti allo stesso universo temporale si incontrano e interagiscono tra loro — viene introdotto il concetto di tempo e, sopratutto, viene incrementato il fattore narrativo.