Qualche anno fa l’artista cesenate Federico Guerri realizzò una serie di incisioni ispirata agli antichi erbari del Quattro-Cinque e Seicento, uno su tutti quello di Pietro Andrea Mattioli, i Discorsi al Dioscoride1, nel quale il medico senese, vissuto più di cinquecento anni fa, scrisse: «chi sapesse le virtù delle piante, farebbe miracoli».
Le specie vegetali — lo sappiamo benissimo visto che gran parte dei nostri farmaci arriva da lì — sono davvero miracolose, ma quelle disegnate da Guerri potrebbero esserlo addirittura di più, visto che non esistono. O meglio, non esistevano, perché una volta concepite e tracciate su una superficie allora, in qualche modo, sono. Il patentino di realtà, però, non è così facile da ottenere. E alle piante di Guerri mancava un ingrediente fondamentale: un nome, la parola, il logos che crea.
Bisognava, tuttavia, aspettare ancora un po’. Nello specifico c’era bisogno di attendere l’intervento di un virtuoso dei lemmi, un feticista delle enciclopedie e dei dizionari, e un giocoliere della polisemia come Gianluca Galante, piccolo editore indipendente con la sua casa editrice Butes, nonché autore di un mini-capolavoro come Il Calidrino.
Amico di Guerri, Galante un giorno si è imbattuto nelle sue tavole, se le è portate a casa, le ha messe sul tavolo, ha cominciato a rimuginarci attorno (al tavolo, alle tavole e alle piante), pensando che, per dei vegetali immaginari, sarebbe stata perfetta una classificazione immaginaria.
Come mi ha poi raccontato, ha cercato di mettersi «in ascolto del segno, del tratto». Ma anche di se stesso. Perché, sostiene Galante, «alla fine la classificazione parla di te».
Affascinato dal grottesco e dagli eroi perdenti, ha quindi battezzato la Trigemina drellocchia, che «imbroglia coi suoi rovi danzanti i lacci delle scarpe dei viandanti», o l’Egotropa delusa, che «sviluppa in giovane età un largo fusto la cui sezione si assottiglia sempre più in un cordo penzulo e poco convinto che, atterrato dalla gravità, s’intana nuovamente al suolo» (non pare di vedere molti di noi, trenta-quarantenni tramortiti dalla vita?).
Il risultato è oltremodo straordinario. Le ironiche e colte classificazioni di Galante sembrano le uniche davvero possibili abbinate alle rispettive specie. Non conoscendo la genesi dell’opera si potrebbe benissimo pensare che siano nati prima i testi e poi le immagini, ma il tutto funziona perché in realtà l’unione tra i due aspetti — testo e immagine — pare naturale e indistricabile, l’uno senza prevalere sull’altro.
«La grossa sfida era quella di connotare il visivo senza invadere il disegno di Federico», spiega infatti Galante.
Il progetto, intitolato Orto Invisibile — invisibile perché idealmente è composto da tutte le piante che non sono state disegnate e classificate (le tavole hanno infatti numeri che saltano dalla III alla V, poi alla VIII, alla XIII, alla XXI…) — ha preso la forma di un libro in edizione limitata, stampato in offset e rilegato in brossura fresata presso la Tipografia Reali di Milano, e chiuso, in appendice, da una spassosissima Tavola delle congiure onomastiche in cui viene spiegata, tra il serio e il faceto — ma quest’ultimo ha sicuramente la meglio —, l’origine dei nomi utilizzati.
Ad accompagnare il libro c’è anche una piccola collezione di stampe calcografiche e tipografiche, anche queste tirate in pochi esemplari.