«Il cielo è di tutti gli occhi,
e ogni occhio, se vuole,
si prende la Luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente»
Chi scrive è Rodari, nella sua filastrocca Il cielo è di tutti.
Effettivamente — sarà banale ma la cosa mi ha sempre affascinato — se io mi metto, naso all’insù, a guardare il cielo, vedrò esattamente ciò che vedi tu se ti affacci alla finestra nello stesso momento: la stessa Luna, le stesse stelle, che sono pure quasi identiche a quelle che poteva osservare uno schiavo dell’Antica Roma, un faraone nell’Egitto di qualche migliaio di anni fa, un soldato della Prima Guerra Mondiale un attimo prima di morire in una trincea sulle Alpi, e sono pure le stesse che vedranno le mie figlie quando io non ci sarò più.
Il cielo è un filo che attraversa lo spazio e il tempo. È un “link” che ci lega assieme, l’intera umanità, e racconta del nostro essere tutti uguali — o meglio, tutti ugualmente insignificanti di fronte all’immensità dell’universo.
Ma. C’è una ma. Ad essere differente è ciò che vediamo, tra le stelle. Che dunque parlano di noi, di ciò che le nostre culture “proiettano” sulla volta celeste, trovando nelle forme delle costellazioni i loro dei, i loro simboli, la loro idea di mondo.
A mettere a confronto le diverse letture che, nella storia dell’umanità, abbiamo dato al cielo notturno, c’è un bel progetto dal nome affascinante, Figures in the Sky.
Attraverso infografiche interattive, Figures in the Sky mostra ad esempio che Betelgeuse — la supergigante rossa che in certe notti limpide d’inverno pulsa e sembra avvicinarsi minacciosamente — è centrale nella cartografia stellare di quasi tutti i popoli, così come è spesso molto simile è il “disegno” della costellazione che la ospita, che per noi occidentali è il mitologico cacciatore Orione, per gli arabi è “il gigante”, per gli hawaiani la “culla del gatto”, per i bielorussi “il trono”. O che il Grande Carro è presente pressoché immutato in tutte le mappe stellari, così come la sua versione in miniatura, le Pleiadi.
«L’infinito cielo che ci lega assieme», scrive l’astronoma e appassionata di dataviz Nadieh Bremer, creatrice del progetto, che ha preso in esame 28 differenti mappature, per altrettante culture. Con alcune curiosità: se noi occidentali, infatti, abbiamo disegnato nel cielo ben 88 costellazioni, che raggruppano ciascuna una media di 8 stelle, i tupi del Brasile ne hanno appena 7, ma molto più grandi (21,5 stelle in media) e più “espressive”, assomigliando cioè molto più fedelmente a ciò che rappresentano. E se ai Siberiani ne bastano 3, i cinesi hanno una volta celeste affollatissima: le loro costellazioni sono addirittura 318.