Dagli anni ’60 alla fine degli anni ’90, milioni di persone, da tutta Europa, d’estate accendevano la tivù e rimanevano appiccicati allo schermo a guardare uomini in costume che portavano in giro grossi cubi rossi con dei bastoni, cercando di non farli cadere; che si travestivano da mucche e correvano lungo percorsi prestabiliti; che sfasciavano grossi pianoforti fino a ridurli in frammenti tanto minuscoli da poter passare attraverso la fessura di una cassetta per le lettere; tenniste che si sforzavano di buttar giù teste di manichino pigliandole a pallettate; orchestre che tentavano di suonare stando in equilibrio su un piano inclinato mentre la gente tutt’attorno lanciava oggetti.
A ripensarci oggi, descritte così, sembrano attività uscite da un romanzo americano avantpop, oppure performance di arte contemporanea. Si trattava, invece, di una delle trasmissioni che hanno avuto più successo nella storia della televisione europea, Giochi senza frontiere.
Alcuni, per privilegio d’anagrafe, ricorderanno la vecchia sigla dell’Eurovisione, con l’audio vagamente distorto, e poi le panoramiche sui surreali campi da gioco, spesso allestiti in cittadine di provincia come Riccione, Montecatini, Intra, oppure, oltreconfine, Saint-Vrain, in Francia, Cointe, in Belgio. Ricorderanno i primi piani sui partecipanti, gente normalissima, i classici vicini di casa, ma davvero, non così per dire, e poi la saliente frase che dava il via ad ogni prova prima del fischio di inizio, sempre uguale, una sicurezza: «Attention… Troix, deux, un…», che nella telecronaca italiana restava tale e quale, in francese, esotica.
Ideato in Francia, fortemente voluto dall’allora presidente Charles de Gaulle, Jeux sans Frontières andò in onda, in due lunghi cicli, dal 1965 fino al 1999, con un intervallo dall’83 all’87. A quanto pare il format originale da cui sono partiti gli autori francesi è italiano: Campanile Sera, che venne trasmesso dal ’59 al ’62, condotto da Mike Bongiorno, Enzo Tortora, Renato Tagliani e in seguito anche Enza Sampò, e si ispirò a sua volta al programma radiofonico Il Gonfalone, condotto sempre dal Mike nazionale nel 1959.
Campanile Sera consisteva in un gioco a premi che una volta a settimana metteva in competizione due paesi italiani, al contempo facendo conoscere al grande pubblico storia e peculiarità di piccoli centri altrimenti poco conosciuti in un’epoca in cui ci si muoveva molto meno e non c’erano né Google Maps né Wikipedia.
I francesi, importarono il format e lo chiamarono Intervilles, che poi diventò appunto la base per i Giochi senza frontiere, primo programma in assoluto ad essere trasmesso in Eurovisione.
In questi ultimi anni ho letto molti sostenere che il tessuto su cui si è costruita la malandata ma pur sempre unita Europa in cui viviamo, più che i politici e i banchieri, hanno contribuito a intrecciarlo gli studenti che hanno partecipato al Progetto Erasmus. Prima ancora, però, furono proprio i Jeux ad avvicinare — seppure con prove ridicole e costumi improbabili — paesi lontanissimi per lingua e cultura.
D’estate, di ritorno dal mare, preparando la cena o seduti a tavola con la famiglia, una quantità impressionante di persone comuni guardavano dentro a uno schermo televisivo altre persone comuni sfidarsi in giochi di abilità, competitivi ma leggeri, folcloristici, senza traccia alcuna del cinismo a cui ci hanno abituati i reality show nell’era mediatica immediatamente successiva alla loro.
Nei miei ricordi ci sono quelli di fine anni ’80/primi anni ’90, che chissà perché guardavo solo e soltanto a casa di mia nonna, e ormai nella trama della memoria si sono irrimediabilmente intrecciati con le sere e le notti d’estate passate a casa sua, con l’odore della cera per pavimenti e del Vernel, con la sua vicina di casa, Graziella, dalla quale si andava dopo cena a guardare Colpo Grosso, e io tutto emozionato perché a casa mia non si guardava mentre lì sì, e perché potevo fare tardi.
Prima dicevo che, a ripensarci, le sfide dei Giochi senza frontiere sembravano performance di arte contemporanea. E in effetti un certo parallelismo c’è, ed è poi il succo di Sportification, poderoso libro-ricerca di Franco Ariaudo, Luca Pucci ed Emanuele De Donno, pubblicato viaindustriae e nato dopo una serie di attività sviluppatesi negli ultimi anni in diverse forme (mostre, performance, letture) ma con lo stesso nome-contenitore Sportification.
«Pubblicazione performativa composta da euro-testi, un archivio vivente di 400 performance artistiche e 250 playgrounds attuati in quasi 35 anni di messa in onda dei Jeux San Frontières» — così si legge nel libro —, il volume che si articola in più parti e sviluppa una tesi che gli autori definiscono “tendenziosa”, e cioè che ci sia stata reciproca influenza tra lo spettacolo eurovisivo di massa e le avanguardie artistiche dell’epoca.
Una delle sezioni del libro prende in esame, a livello architettonico, urbanistico e sociale, i playground, i campi da gioco allestiti nella varie location del programma, mentre un ideale vocabolario della performatività — costruito con termini che sono entrati nel vocabolario dello spettatore comune proprio grazie a Giochi senza frontiere: parole come bagarre, chance, débacle, ex-aequo, e così via — mette in parallelo le sfide del programma televisivo e le performance artistiche di quegli anni.
Beuys, Piero Manzoni, Rauschemberg, Penone, Sol Lewitt e, accanto, i giochi a Piazzale Roma, Riccione, ad Avignone, in Francia, sulle rive del lago di Lugano o su quelle del Lago Maggiore, il tutto corredato da schede, testi critici e tante, tantissime immagini, frutto di una grande ricerca tra gli archivi di mezza Europa, a partire da quello di Gianni Magrin, grandissimo appassionato dei Giochi ai quali ha anche dedicato un libro.