Le aule stanno per riempirsi, gli studenti sono già nei corridoi in attesa di sciamare disordinatamente dentro e sedersi ai loro posti, i libri in mano, la testa altrove. Qualcuno è ancora assonnato. Qualcun altro è per strada e arriverà in ritardo.
O forse no, forse la lezione è già finita e sono usciti tutti, gli addetti alle pulizie sono passati, hanno tirato a lucido, raccolto le matite, che metteranno nello scatolone degli oggetti smarriti, buttato i pezzi di carta, i tappi delle penne, i resti di qualche spuntino.
Non so se hanno un nome preciso: io le chiamo fotografie in assenza. Sono quelle in cui un esterno o un interno, solitamente popolati di persone, vengono rappresentati vuoti, in quell’indefinito istante in cui non sai se sei di fronte a un prima o a un dopo ma riesci a immaginarli entrambi, quel che è stato e quel che sarà.
Fotografie in cui è proprio l’assenza a definire lo spazio, che nel temporaneo limbo in cui è immerso trascende la sua funzione e diventa quasi un’idea astratta. Non più un’aula ma l’aula, che contiene dentro di sé tutte le aule che sono state e che saranno.
E questo vale per le biblioteche, i teatri, i cinema, i palazzetti o i parchi dei grandi concerti col palco già (o ancora?) allestito, gli stadi, le palestre, le piscine, gli uffici: tutti quei luoghi che hanno una funzione chiara ed evidente, e in cui si incrociano le vite di persone che spesso a malapena si conoscono.
Ludwig Favre, fotografo francese classe 1976, è piuttosto bravo con questo genere di soggetti.
Il suo portfolio, costituito soprattutto da foto di viaggio e di architettura, diventa ancora più interessante quando si tratta di spazi dedicati a cultura e intrattenimento.