Ogni giorno, intorno alle 21,00, in casa nostra ci dividiamo le figlie per il rito serale della lettura. Nel senso che uno va dalla più piccola, che ha le sue ossessioni librarie e per settimane vuole sempre e soltanto gli stessi volumi, di cui perlopiù guarda le figure mentre ascolta la voce della mamma o del papà e ripete qualche parola (attualmente i suoi feticci sono Una canzone da orsi di Benjamin Chaud, e Mio Miao di Sandol Stoddard e Remy Charlip, entrambi ereditati dalla sorella), mentre l’altra fa letture un po’ più serie, a turno con la mamma o con il papà.
È ormai più di un anno che io e Sveva, che ha sette anni e mezzo, siamo immersi fino al collo nella saga di Zamonia, dello scrittore tedesco Walter Moers. Libroni lunghi — 700, 800, 1000 pagine ciascuno — e in effetti adatti a ragazzini più grandi, per via di intrecci un po’ complessi, tantissimi personaggi da ricordare, termini non sempre semplicissimi e scene piuttosto spaventose, per cui mi premuro di leggere piuttosto lentamente in modo tale da semplificare la prosa, alleggerire il carico di tensione o, quando proprio è il caso, passare oltre (ma gli incubi, inutile dirlo, ci sono stati lo stesso).
Dopo il primo capolavoro, Le 13 vite e mezzo del capitano Orso Blu e lo spaventosissimo e vagamente psichedelico Ensel e Krete (ovviamente ispirato ad Hänsel e Gretel), siamo arrivati al terzo libro, Rumo e i prodigi dell’oscurità, che tra l’altro abbiamo pure faticato molto a trovare, perché è andato fuori catalogo.
Ad ogni modo — arrivo finalmente al punto — quando dopo 178 pagine i due protagonisti, cioè un giovane croccamauro (canide intelligente con le corna) di nome Rumo e un finissimo e saggio stratega di nome Volzotan Smeik, un po’ squalo e un po’ lombrico (difatti è uno squalombrico), si separano, Smeik, che ama gli indovinelli, ne pone un’ultimo all’amico: che cosa diventa sempre più breve a mano a mano che si allunga?
Io con gli indovinelli non sono per niente bravo quindi è stata mia figlia a uscirsene con la risposta, dopo averci rimuginato ma neanche troppo: la vita!
È la vita che, più si allunga e più si accorcia, per lo meno quel che rimane da vivere.
Sbalordito ho cominciato a pensarci su. In effetti non fa una piega, anche se mi ha un po’ spaventato il fatto che lei sia arrivata a una conclusione tanto amara — o forse per lei amara non è, ma semplicemente logica.
In realtà devo ammettere che non so se la risposta sia quella giusta. Non ci siamo ancora arrivati, nella storia (e spero vivamente che l’autore la dia una risposta, altrimenti divento matto), e non voglio controllare, online, per non rovinarmi la sorpresa. Però è plausibile.
E un libro come 100 Years, indirettamente, lo conferma.
Ideato dallo scrittore e giornalista americano Joshua Prager, 100 Years è semplicemente una raccolta di citazioni letterarie, prese da autori di ogni epoca come Shakespeare, Jane Austen, Herman Melville, Arthur Rimbaud, Virginia Woolf, E. E. Cummings, William Golding, Doris Lessing, Sylvia Plath, David Foster Wallace, ciascuna relativa a una specifica età e messa fianco a fianco ad essa, mentre i colori sfumano da un anno all’altro, in un gradiente che ti accompagna tra luci ed ombre, leggerezza e pesantezza (il design è stato affidato al grande Milton Glaser).
Gli ingredienti sono quelli di un libro banale, ma il risultato è invece una riflessione amara sul tempo che passa — anche perché, se uno sta al gioco e ritorna sul volume solo una volta l’anno, oltre a riflettere per forza di cosa su quel che stato, con tutti i rimpianti del caso, e su quel che potrebbe restare, rischia di non arrivarci mai alla fine, di non aprire quelle paginette 78, 79, 80, 81…
Sulla New York Times Book Review il critico John Williams ha scritto di 100 Years: «Pulito e semplice. Mentre le pagine passano si ha la sensazione sempre più malinconica di ciò che il tempo prende da noi».
E qua torniamo all’indovinello e alla risposta di mia figlia: che cosa diventa sempre più breve a mano a mano che si allunga? La vita.