Save the date | Prof. Bad Trip – A Saucerful of colours

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«Si soffrigono due spicchi di orwell, un bakunin sbucciato e qualche foglia dada, tritati finemente, per cinque minuti. Si aggiunge un barattolo di espressionismo a pezzettoni e si fa cuocere il tutto per quarantacinque minuti a fuoco lento in un tegame precolombiano. A parte si prepara la sfoglia del subgenius: occorre un chilo di ballard zero zero, mezzo litro di dick e un pizzico di burroughs impastati insieme con mastra e mattarello patafisico. In un altro piatto punk a parte si tritano due etti di mozzarella di carpenter. Imburrata la teglia con margarina jodorowsky, si dispongono i tre preparati nell’ordine che ti ho detto, in vari strati fino a riempirla. Prima di metterla in forno occorre una spruzzata finale di buñuel reggiano grattuggiato. Si cuoce tutto per quaranta minuti a centocinquanta gradi huxley. Consiglio di mangiarlo accompagnato da birra cronenberg in boccale cybertribale»

Era la ricetta, questa, suggerita dal Prof. Bad Trip in persona in un’intervista pubblicata alla fine dell’Almanacco Apocalittico, un volume pubblicato nel 2002 da Mondadori e dedicata all’opera di Gianluca Lerici, in arte appunto Prof. Bad Trip, artista spezzino classe 1963, punkettone, artefice principale di almeno un paio di decenni di estetica underground italiana, dagli anni ’80 ai primi 2000, una vita (breve, stroncata da un infarto nel 2006, a 43 anni) passata al di fuori del mondo dell’arte ufficiale, che non ne ha mai riconosciuto il valore in vita e l’ha praticamente dimenticato dopo la morte—per dirne una: c’è voluta una petizione per far organizzare, nel 2009, una mostra al Museo di Arte Contemporanea della sua La Spezia.

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Io l’ho scoperto tardi, il Professore. Doveva essere la fine degli anni ’90 e in una delle rare librerie comunist-underground della mia zona (dove trovavi Marx e i manuali per coltivarti l’erba, Pino Cacucci e libretti autoprodotti coi racconti psichedelici di chi provava i funghi magici) vidi una copia del Pasto Nudo, il capolavoro di Burroughs, rifatto a fumetti da Bad Trip.
Un gran trip, appunto, che mi lasciò con la bava alla bocca ma anche drammaticamente frustrato, tipo orgasmo interrotto, perché non avevo i soldi per comprarlo e già all’epoca non dovevano essercene più molte di copie in giro (il libro, edito da ShaKe, è del 1992).

Nel 2002 poi l’uscita dell’Almanacco di cui sopra, quello con la ricetta dei due spicchi di orwell. Quello in cui potevi riconoscerti all’istante, perché gli ingredienti con cui sfogavi/alimentavi attraverso i libri, i film e la musica la tua incazzatura da outsider, da secchione con un debole per la fantascienza e gli stati di coscienza alterati, erano esattamente quelli: Huxley, Orwell, Dick, Burroughs, Buñuel, punk e cyberpunk.
Ma, di nuovo, nel 2002 ero un cavolo di squattrinato e mi persi pure quello, recuperandolo solo qualche anno dopo in biblioteca.

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Quando poi cominciai a smanettare sul web, nei primi 2000, in un’epoca di gran fermento e altrettanta ingenuità, cominciai a seguire le tracce del Professore. Se non ricordo male finii pure, come fondatore di un sito che avevo all’epoca, Freshcut, in un trafiletto di una rivista, Next Exit, in cui si parlava di Lerici o di cui lui aveva disegnato la copertina—la memoria, dopo più di dieci anni, non m’assiste.

Finché un giorno di novembre del 2006, probabilmente il 26, il giorno dopo la sua morte, in rete cominciò a diffondersi la notizia che il Prof. Bad Trip aveva lasciato questo mondo. Fosse successo oggi i social sarebbero stati pieni di commozione esibita, sarebbe stata organizzata una mostra nel giro di qualche settimana, sarebbero usciti libri. Ricordo invece tanta, tanta umanità nei saluti di chi allora frequentava tutti quei portali dedicati all’arte che bazzicavo anche io e che oggi sono quasi tutti scomparsi.

Il tenore dei “saluti” era più o meno questo, pubblicato su uno dei siti più vicini al Professore in vita e che dopo la sua scomparsa ne ha tenuta viva l’opera e l’eredità grazie a un bell’archivio con molte delle sue opere, realizzate sui supporti più disparati, dalle t-shirt serigrafate alle copertine di dischi e riviste, dalle sperimentazioni video alle coloratissime tele degli ultimi anni, quelle che lo avevano fatto conoscere anche all’estero.

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Oggi molte di quelle opere, alcune delle quali inedite, la maggior parte comunque poco conosciute (per l’immeritata poca considerazione di cui parlavo prima) sono le protagoniste di una bella mostra organizzata dalla Teké Gallery di Carrara, oltre che di un corposo catalogo stampato per l’occasione.

La retrospettiva, fatta non solo di tele e dischi e libri e riviste ma anche di oggetti, sculture, mobili, video, interviste al Prof. e a chi l’ha conosciuto (tra gli altri: Matteo Guarnaccia, Vittore Baroni e Marco Philopat), racconta oltre vent’anni di attività dell’artista, dagli anni ’80 alla morte, ed è una mostra diffusa, che esce dagli spazi della galleria per espandersi in altri luoghi della città—cosa che un talento multiforme come il suo, probabilmente, avrebbe apprezzato.

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