Un libro celebra i 25 anni della rivista Colors

La prima volta che ne presi in mano una copia doveva essere il ’93 o il ’94. Non mi ricordo la copertina, né che numero fosse, ma il periodo sì perché ero appena entrato nella mia fase “Seattle”, dopo aver sentito per caso i Nirvana alla radio ed esser quasi cascato dalla sedia per la foga di capire, sentire, saperne di più, tutto assieme (e mica c’era internet, dovevi aspettare che tornasse la voce del dj e sperare che dicesse il nome della band, poi tenere le antenne ben dritte per scovare le notizie sui giornali, le chiacchiere di quelli più grandi, a scuola, poi racimolare venti o trentamila lire per andare al negozio di dischi: uno sbattimento inimmaginabile per chi è nato con Google sottomano).

Cos’era quella roba? Come dovevo fare a elaborare tutte quelle informazioni? Colors sembrava arrivare da un altro pianeta

Ero l’ennesimo 14/15enne che voleva essere come Kurt Cobain, che si era fatto crescere i capelli come Kurt Cobain, che voleva gli occhiali strani e i maglioni troppi larghi e possibilmente coi buchi, le t-shirt slabbrate, i pantaloni rotti, le cose senza marca, senza etichetta, e quindi avevo cominciato a snobbare i sabato pomeriggio all’insegna dello shopping con i miei. Ma loro, che erano svegli e lo sono rimasti, accorgendosi di avere a che fare con un adolescente problematico e sfigato appena agli inizi, hanno pensato bene di portarmi a casa una copia di Colors, la rivista, presa, se non ricordo male, nel negozio Benetton.
E se coi Nirvana per poco non cascavo dalla sedia, con Colors quasi non svenni. Ci mancò tanto così.

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Cos’era quella roba? Come dovevo fare a elaborare tutte quelle informazioni? Certo, le pubblicità di Oliviero Toscani le avevo già viste ma di riviste del genere neanche l’ombra.
In casa giravano L’Espresso, il Venerdì di Repubblica, l’onnipresente Tv Sorrisi e Canzoni (che nella mia testa era tutto unito—tivvùsorrisieccanzoni—e solo più tardi mi misi a riflettere davvero sulla totale idiozia di quel nome), da cui da anni ritagliavo i rari testi dei gruppi che mi piacevano; e poi il glorioso Cuore (che chiuse nel ’96, con l’arrivo di Prodi), talvolta Micromega, tutti i vari femminili che comprava mia madre; avevamo uno scaffale pieno di vecchi Linus, che io mi divertivo a sfogliare già da bambino (ovviamente attratto dal nome), e stampa comunista varia ed eventuale.

Non riuscendo sempre a trovarne una copia pensai pure di cercarmi “qualcosa di simile”. La sfiga era che qualcosa di simile non c’era mica. Né c’è mai più stata

Ma Colors sembrava arrivare da un altro pianeta, un pianeta in cui dovevano avere un bel canocchiale potente per poter vedere il nostro, anche nei dettagli più crudi; un pianeta, soprattutto, in cui le idee andavano alla velocità della luce e finivano tutte lì, su quelle pagine, in un flusso per il quale, la prima volta che mi ci trovai in mezzo, mi mancavano le istruzioni per capire come affrontarlo.

Ricordo che lo divorai, stordito. E che ne volevo ancora, come i Nirvana. E come coi Nirvana, se chiedevo al mio pc che girava in Dos, senza disco fisso e senza connessione alla rete, lui, il computer, non poteva fare a meno che restarsene fermo sulle sue posizioni (che allora corrispondevano a un A:\> scritto in bianco su sfondo nero che aspettava il da farsi, pronto a sputare messaggi di errore alla prima incertezza).

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Non riuscendo sempre a trovarne una copia pensai pure di cercarmi “qualcosa di simile”. La sfiga era che qualcosa di simile non c’era mica. Né c’è mai più stata. Perlomeno non come il Colors di quei primi anni, gli anni ’90 (la rivista è nata nel ’91, fondata da Oliviero Toscani e Tibor Kalman, ovviamente con il massiccio supporto finanziario di Benetton).

Negli anni poi ho continuato a sfogliarla solo saltuariamente. Cambiavano gli interessi, cambiavano i tempi, Colors stesso perdeva di mordente. E quando finalmente arrivò il web niente fu più come prima. Ma nonostante tutto il progetto è andato avanti, così come Fabrica, la fucina creativa che ha aperto i battenti nel 1991 assieme al magazine.
Ed è ormai alle porte il traguardo dei 25 anni, celebrato da un libro uscito ad agosto, pubblicato da Damiani e intitolato COLORS. A book about a magazine about the rest of the world, richiamando il motto originale della rivista, che “parla del resto del mondo”.

Per celebrare i 25 anni del magazine Damiani ha pubblicato un libro che raccoglie il meglio dei 90 numeri usciti dal 1991 a oggi, comprese le interviste a Oliviero Toscani e Luciano Benetton

240 pagine, 300 illustrazioni, interviste a Toscani e a Luciano Benetton, che raccontano gli inizi dell’avventura editoriale, il libro raccoglie il meglio di quanto uscito nei 90 numeri di Colors.

Più volte ho citato il web, che nel ’91 non c’era ancora, perlomeno per come lo conosciamo oggi. Nell’introduzione al volume, il critico e curatore Francesco Bonami parla, tra le altre cose, anche di questo, di come oggi sarebbe impossibile (e irrilevante) imbarcarsi in un progetto del genere, e di come nonostante fosse praticamente impossibile anche all’epoca (proprio perché non c’era internet a disposizione), Toscani e Kalman siano riusciti a fare quel che hanno fatto, tra l’altro esplorando—cito—«la nascita della globalizzazione e l’emergere del multiculturalismo in un periodo in cui nessun altra pubblicazione lo faceva».

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